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L’ultimo nastro di Krapp

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 "L'ultimo nastro di Krapp", piéce teatrale di Samuel Beckett
"L'ultimo nastro di Krapp", piéce teatrale di Samuel Beckett

"L'ultimo nastro di Krapp" oggi, 25 giugno, al teatro di Ligonchio alle ore 21 diretta e interpretata da Fabio Gaccioli / Collettivo Ansasà.

“Krapp utilizza come diario un vecchio registratore, in cui descrive le sue giornate, i pensieri e i desideri. Krapp è un vecchio sfatto, dalla faccia bianca, il naso paonazzo; sceglie di raccontare piuttosto che vivere, di parlare a se stesso piuttosto che dialogare.

Un solo uomo in scena, in un atto unico, bobina 5 scatola 3; non è un dialogo, non è un monologo: solo una voce dal passato che parla con se stessa nel presente, di quello che credeva sull’Amore, sulla Felicità, sulla Vita; di quello che pensa dell’incapacità di amare, della perdita inevitabile della felicità e del fallimento esistenziale.”

Intervista a Fabio Gaccioli del Collettivo Ansasà a cura di Margherita Romei.

M.:  Allora, la prima domanda è questa: tu fai parte del collettivo Ansasà. La parola collettivo ci rimanda a dei dispositivi nati con le lotte sociali negli anni '60 del secolo scorso. Che cos'è un collettivo? Qual è il suo fine? E che significato ha, oggi, nel 2016?

F.:  Non so risponderti con esattezza. Posso dirti la mia percezione… la forma che abbiamo scelto per associarci è strettamente legata al nostro metodo di lavoro. Nel nostro caso i progetti sono frutto di un’esperienza individuale che viene poi portata in questo luogo comune, collettivo appunto, e qui raffinata e trasformata. L’oggetto intellettuale che ne esce è il frutto di questo incontro. Nel gruppo siamo tutti consapevoli che l’elemento individuale ha bisogno di quello collettivo per poter vivere, soprattutto se si parla di teatro. In questo senso credo che oggi, come ieri, scegliere di costituirsi in un dispositivo simile, come dici tu, piuttosto che in un’associazione di altro tipo, abbia qualcosa di fortemente politico.

M.: In quanti siete?

F.: Ansasà… nel senso che il numero è variabile a seconda dei progetti che portiamo avanti. Comunque di fissi siamo io, Andrea Herman, Giuliano Gabrini, Mirko Bottazzi, Benedetta Valdesalici e suo fratello Lorenzo. Di recente abbiamo acquisito un settimo elemento, Matteo Genitoni, che partecipa come attore alla messa in scena di uno dei nostri spettacoli.

M.: Come vi organizzate tra di voi?

F.: Anche questo Ansasà… la nostra non è un’associazione ufficialmente riconosciuta, non ci sono né gerarchie né divisioni rigide dei ruoli, non abbiamo tessere e non ci si associa versando una quota di denaro. Siamo, come dire, naturalmente anarchici.

M.: Spiegati meglio.

F.: Riusciamo ad autogestirci. Ciascuno di noi ha il proprio ruolo all’interno del collettivo, e tendenzialmente questo ruolo coincide con il nostro talento principale, e conseguentemente con la parte migliore di noi, che è quella che poi mettiamo a disposizione di tutti. Non abbiamo bisogno di individuare né presidenti né consiglieri o segretari. La divisione dei compiti avviene naturalmente. E ci teniamo molto che sia cosi.

M.: L’ultima domanda sul collettivo. Ansasà, perché?

F.: Non lo so, o per meglio dire, so di non sapere… e da quello che so ne so già abbastanza.

M.: Allora, tu hai messo in scena un testo molto impegnativo: “L’ultimo nastro di Krapp” di Samuel Beckett, a Castelnovo ne' Monti, in piazza prima e poi in teatro; e adesso lo spettacolo sta per essere replicato al teatro di Ligonchio…

F.: Si siamo a Ligonchio il 25 giugno.

M.: La mia domanda è questa: che senso ha portare un testo così complicato in montagna? Chi può capirlo? A chi è rivolto?

F.: Al pubblico, molto semplicemente. Io sono convinto che in montagna, come ovunque, non sia necessario essere intelligenti per venire a teatro a vedere uno spettacolo come questo che, fondamentalmente, parla di morte e di amore. Cose che ci accomunano tutti e che tutti possiamo capire; che ho capito io per primo leggendo il testo, sentendomelo addosso. Uno spettacolo come questo stimola l’intelligenza emotiva, partecipe, e lascia traccia nello spettatore anche se non si riesce ad afferrare esattamente il senso… ci si smarrisce un po’ a vedere questo spettacolo, credo. E a volte perdersi è piacevole e utile, casomai, a ritrovarsi un passo oltre, oppure a lato, della solita quotidianità.

M.: In questo spettacolo ci sono molti momenti di silenzio, di attesa. Ci sei tu seduto su una sedia, e passi gran parte del tempo ad ascoltare il tuo te stesso più giovane attraverso le bobine di un registratore. Il tema dell’attesa è centrale, e in un certo senso anche il pubblico è chiamato a viverlo. C’è stato chi ha detto che saper aspettare, in questo mondo impostato su velocità ed efficienza, ha qualcosa di sovversivo. Sei d’accordo? L’attesa è davvero sovversiva? Il teatro può insegnarci qualcosa in tal senso?

F.:  Credo proprio di sì. Viviamo una realtà veloce, dove lo scambio di informazioni è continuo e a livello teorico, infinito. Io credo che questo accumulo di informazioni, di dati che siamo disposti a immagazzinare, sia di per sé sterile, perché non dà il tempo materiale di approfondire nulla, non riesci a sviluppare un giudizio critico. Tu resti un soggette passivo, ciò che conta è la tua capacità di accumulare informazioni, immagini, notizie. E’ la stessa distorsione del desiderio che viviamo come comuni consumatori: il desiderio è inappagabile, viene immediatamente sostituito da quello successivo; non esiste in realtà un oggetto del desiderio, ma il desiderio di desiderare, e questo è quanto. La finzione del gioco teatrale si offre come strumento di ricerca della verità in una realtà piena allo sfinimento di verità vacue, superficiali, da grande distribuzione, si svolge sotto ai tuoi occhi in un tempo fisico e carnale, in un determinato istante, irripetibile e unico come la vita stessa; e tu sei chiamato ad afferrarlo quell'istante nel tempo e nel luogo a lui dedicati, non altrove. E’ così dai tragici greci in poi, e io credo che la gente, il pubblico, questa unicità, questa vitalità sovversiva, possa capirla oggi ancor meglio di ieri.