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Kosovo: la madre di tutte le guerre… preventive

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Nei giorni in cui si svolge la prima visita di un presidente serbo nel Kosovo del dopoguerra, a 8 anni di distanza da quella di Milosevic, è naturale riflettere su quello che può essere il futuro di questa regione.
In un momento storico in cui la modalità “guerra”, come mezzo per risolvere le controversie fra nazioni, culture o civiltà è tornata protagonista – sotto i nomi di “intervento umanitario”, “guerra umanitaria” o “guerra preventiva” – è infatti importante riflettere su come si è arrivati ad accettare che, ancora nel 2005, la notizia di apertura di tutti i telegiornali e delle testate giornalistiche sia una guerra, e soprattutto sia una guerra in cui volenti o nolenti siamo coinvolti.
C’è un momento e un luogo preciso in cui iniziò il nuovo corso della politica internazionale, e in cui gli “stati illuminati” poterono finalmente usare la forza scartando le “vecchie regole restrittive” e obbedendo a “nozioni moderne di giustizia” da essi stessi prodotte (N. Chomsky). Questo luogo fu il Kosovo.
L’evento che spinse i paesi NATO a divenire a tutti gli effetti parte di un conflitto civile fra la popolazione serba e albanese, fu la strage di Raçak. Nel gennaio del 1999 furono ritrovati, in quel villaggio, i corpi di quarantacinque albanesi orrendamente trucidati. Il segretario di Stato americano, Madeline Albright, dichiarò allora: “una cosa del genere non può esistere; nel 1999 una pulizia etnica barbara come questa non è ammissibile. Le democrazie devono insoregere contro malvagità di questo genere”.(1)
Iniziarono così le minacce di bombardamenti e divenne priorità assoluta stanziare le truppe NATO nella regione. Fallite le trattative, l’attacco fu iniziato il 24 marzo 1999. Con tale decisione l’Alleanza atlantica – nata con scopi difensivi – si impegnava per la prima volta nel mezzo secolo della sua storia in un’azione offensiva. Attaccando uno stato sovrano violava così non solo la propria costituzione ma anche la Carta dell’ONU. In quel frangente il Segretario generale delle Nazioni Unite, Kofi Annan, non criticò apertamente l’azione della NATO realizzata senza il consenso del Consiglio di Sicurezza, ma affermò che “è davvero tragico che la diplomazia abbia fallito, anche se ci sono tempi in cui l’uso della forza può essere legittimato nella ricerca della pace”.
Questa dichiarazione porta il pensiero a quanto accadde, quattro anni prima, a poco più di 200 chilometri di distanza, precisamente a Srebrenica nel luglio 1995 al confine fra Serbia e Bosnia Erzegovina. Nella cittadina dichiarata zona di sicurezza dall’ONU dal 1993, si compi' il più grande massacro europeo dai tempi della Seconda Guerra Mondiale. L’esercito serbo cominciò a bombardare il 9 luglio conquistando la città. Per due settimane da allora si verificano rastrellamenti, uccisioni, stupri e quindi fughe in massa di donne, vecchi e bambini. Tutti gli uomini dai 12 ai 70 anni vennero invece fatti prigionieri e deportati in campi di concentramento, torturati, uccisi e gettati nelle fosse comuni, per un totale di vittime stimato tra 7000 e 8000. Tutto questo accadde sotto gli occhi dei caschi blu olandesi che presidiavano quella zona, e che avevano l’ordine tassativo di non intervenire. Ci sono addirittura testimonianze concordanti su come l'esercito serbo entrò a Srebrenica a bordo dei blindati bianchi dell'ONU, con gli elmetti azzurri sottratti agli olandesi, e di come la popolazione bosniaca corse loro incontro convinta di riceverne soccorso e aiuto.
Allora il Segretario generale dell’ONU era Butros-Ghali. A chi gli chiedeva se considerasse la caduta di Srebrenica la più grave sconfitta delle Nazioni Unite in Bosnia-Erzegovina, rispose: “No, non credo che rappresenti un fallimento. Bisogna vedere se il bicchiere è mezzo pieno o mezzo vuoto. Noi continuiamo ad offrire assistenza ai rifugiati… e siamo riusciti a contenere il conflitto entro i limiti dell’ex-Jugoslavia”.(2)
Indubbiamente il clima in cui era stata rilasciata questa cinica dichiarazione era molto aspro a causa di accuse e sospetti, frutto di inchieste sia di parte internazionale che locale, in cui si imputavano alle potenze occidentali gravissime responsabilità in quest’eccidio. Tutto questo portò ad affermare, non solo coi fatti, ma apertamente che “L’ONU morì a Sarajevo e a Srebrenica fu sepolta”.
È così più facile capire come si è arrivati oggi ad accettare la guerra totale, senza limitazioni o sanzioni di alcun tipo, ma dipendente solo dal potere di chi la muove. Del resto se anche l’ONU non ha più alcun peso per potere evitare una guerra, come si può pensare che lo abbia la società civile?
Il funerale dell’ONU sembra quindi essersi consumato nei Balcani. Al di sopra di tutte le strumentalizzazioni politiche o le semplificazioni culturali o religiose, che paiono inevitabili parlando dell’attualità più stretta, dell’Afganistan o dell’Iraq, dal momento che i Balcani sono vicini a noi geograficamente, culturalmente e come modo di vita.
Guardano le immagini dell’assedio a Sarajevo, della sua biblioteca incendiata, o dei campi di concentramento di Omarska, non era possibile non vedere persone simili a noi, difficile non considerare che tutto stava accadendo a pochi chilometri dalle nostre case. Purtroppo molti ci sono riusciti, e cosa ancor più grave ci è riuscito chi avrebbe invece dovuto rappresentare il “mondo libero”, come ama definirlo Noam Chomsky.
Ritornando ai quei fatti è molto difficile comprendere come quattro anni dopo gli stessi rappresentanti si indignarono per episodi, che al confronto potevano quasi definirsi marginali, tanto da giustificare l’abbandono di tutte le regole per scatenare un “intervento umanitario”, che mise i serbi nella posizione in cui avevano loro messo i bosniaci.
Lungi dal voler, o poter, giudicare il torto o la ragione, è però evidente che nonostante l’intervento umanitario in Kosovo ben poco si è risolto. Dal 1999 esso è un protettorato dell’Onu. Negli ultimi cinque anni, la questione dello status della provincia è stata ''rinviata'' mentre i due milioni di kosovari, sia la maggioranza albanese che la minoranza serba vivono in una sorta di ''limbo''costituzionale. Dall’inizio di quest’anno si moltiplicano gli allarmi per una situazione che si fa sempre più difficile.
L’International Crisis Group, sostiene che occorre avviare il Kosovo verso l’indipendenza al più presto, e avverte che la popolazione albanese non accetterà mai di tornare sotto la giurisdizione di Belgrado. Spetta alla comunità internazionale capirne il malcontento, soprattutto dopo l'esplosione di violenza del marzo scorso, in cui morirono 19 persone e oltre 800 edifici furono dati alle fiamme.
In questo clima, tra strette misure di sicurezza, sorvolato da due elicotteri, il convoglio del presidente serbo Boris Tadic è giunto, il 13 febbraio, a Silovo, un piccolo villaggio del nord del Kosovo, e prima tappa della visita di due giorni. Il presidente e' stato accolto da centinaia di persone dell’enclave serba, riunitesi davanti alla scuola del villaggio a cui ha detto: ''Non bisogna dare un'importanza particolare a questa visita. Per me è la normale visita di un presidente serbo in una regione della Serbia per conoscerne le condizioni di vita'', ha poi affermato che: ''Il Kosovo fa parte della Serbia/Montenegro, non soltanto secondo la nostra legge, ma anche secondo le leggi internazionali''. Tadic ha poi consegnato agli abitanti di Silovo una bandiera serba.

(1) B.Choen, G.Stamkosky, (a cura di), With no peace to Keep, in «Delo», 8 agosto 1995, p. 94.
(2) Ibidem, p. 94