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Punti di vista e partecipazione

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Ci sono cose dette e cose non dette, cose mostrate e cose non mostrate: quello che non rientra nel vortice informativo dei mass-media è come se non esistesse. Le responsabilità del giornalismo nel modellare il quadro di riferimento con cui si osserva il mondo non è quindi da sottovalutare. Attraverso i valori della notizia, alcuni avvenimenti vengono considerati degni di nota, mentre altri sono trascurati. Delle crisi internazionali che stanno imperversando nel sud del mondo, Iraq escluso, negli ultimi sei mesi i telegiornali hanno dedicato 15 minuti di attenzione, mentre la carta stampata un totale di 140 articoli. Sono dati riportati da Massimo Zaurrini, giornalista di Misna, un’agenzia di stampa dedicata interamente a Sud America, Africa e Asia, durante il suo intervento a Reggio Emilia tenuto il 12 settembre scorso nell’ambito delle manifestazioni per l’Onu dei Popoli. Nel corso della serata ha parlato anche Diana Senghor, direttrice dell’Istituto Panos per l’Africa Occidentale, un’organizzazione che si occupa di monitorare lo stato dell’informazione, favorirne il pluralismo e l’orientamento alla pace.

Onu dei popoli? La rappresentante del Senegal ha partecipato al summit di Assisi insieme ad un centinaio di delegati provenienti da tutti i continenti. L’Onu dei Popoli è stato organizzato nella settimana che ha preceduto l’Assemblea Generale riunita al Palazzo di Vetro di New York. Al termine, è stato firmato un documento da presentare ai capi di stato e primi ministri nel quale sono state indicate le priorità per sconfiggere la povertà e la guerra. La comunicazione è un elemento fondamentale in questa ottica. Il mondo rifluisce nei mass-media e i mass-media contribuiscono a profilarne i confini. La loro natura commerciale e istituzionale li porta a difendere interessi di carattere economico e politico, a orientarsi verso valori che minerebbero i fondamenti della democrazia e dell’umanità.

Etica e comunicazione? In un recente convegno a Venezia dal titolo Etica e Comunicazione il direttore di Le Monde Diplomatique, Ignacio Ramonet, ha esordito mettendo in chiaro che sono proprio i mass-media ad essere un problema per la democrazia, la cui funzione di partecipare, controllare e rappresentare i cittadini verrebbe elusa. Per Ramonet “la mondializzazione è pilotata dalle imprese, non dagli stati, e i gruppi finanziari, mediatici, industriali sono i principali attori della società”. La rivoluzione tecnologica è leggibile allora in questo senso: “con numerose edizioni, divertimento, pubblicità, internet la comunicazione e l’informazione sono la prima materia strategica dell’epoca del potere economico, del potere politico”. Il potere mediatico, il decantato quarto potere, non sarebbe più alleato dei cittadini. Per il 90%, specifica Giulietto Chiesa, già corrispondente da Mosca per La Stampa e fondatore del magazine online megachip.info ed ora euro parlamentare, in televisione assistiamo a pubblicità ed intrattenimento, mentre solo il 10% è dedicato all’informazione. Nonostante questa scarsa percentuale, la quantità di informazione prodotta deve essere assimilata. Ennio Remondino, inviato Rai durante le guerre balcaniche, mostra come il significato di informare, mettere in forma i momenti topici di una giornata di cui il giornalista trova riscontro, abbia abdicato per “un utilizzo alternato di scale di passione, contrapposte all’esempio di chi va a cercare sul campo, ai reporter caduti durante l’esercizio della loro professione”.

Il caso Rai News 24. Tuttavia, nella nebulosa informativa non è raro attestare qualche caso di ottimo giornalismo, che premia il lavoro di scavo e denuncia. Sigfrido Ranucci, reporter di Rai News 24, ha condotto un’inchiesta sull’uso di armi chimiche nella battaglia di Falluja, richiamando l’attenzione dei media internazionali, tra cui il New York Times e Al-Jazeera. In Italia è stato tendenzialmente sottovalutato da gran parte dei quotidiani e telegiornali principali, nonché da ampi settori della politica. Mesi fa, lo stesso Ranucci aveva svelato i retroscena della missione italiana a Nassiryia, sito di una riserva petrolifera assegnata tempo addietro, in accordo con il regime di Hussein, all’Eni. Un’importante testata, racconta Ranucci, anch’egli intervenuto a Venezia, aveva pattuito di inserire una simile notizia in prima pagina, in accordo con Rai News 24. L’indomani non veniva menzionata, ma compariva un box pubblicitario dell’ente petrolifero nazionale. Entrambi i reportage, infine, sono stati trasmessi alle 7 e 30 del mattino sul canale satellitare e su Rai 3, orari arditi per i contenuti espressi, di forte impatto e impegno sociale.

L’ordine del discorso. La professione giornalistica raggiunge i vertici di qualità quando chi ne è responsabile si può muovere con una certa indipendenza e autonomia di giudizio. Il metro per valutare un servizio può essere il punto di vista con il quale viene realizzato. Spesso questo punto di vista viene assimilato dalla struttura dei mass-media, dall’editore, dai finanziatori, e ad un livello ulteriore dalle istituzioni. Nel 1970 venne pubblicata una lezione di Michel Foucault al Collège de France, L’ordine del discorso. Per il filosofo francese le istituzioni di potere sono portate a custodire gelosamente le fonti del discorso, per mantenere l’ordine sociale. I mass-media possono essere visti come i depositari del discorso contemporaneo.

Il mercato della notizia. Le multinazionali tendono ad affiliarsi finanziariamente e ad acquistare le aziende della comunicazione di massa. In Italia non ci sono mai stati editori puri impegnati nel giornalismo. In Francia, Le Monde è uno dei pochi quotidiani a mantenere una certa indipendenza. Il direttore Jean-Marie Colombani ha affermato lo scorso dicembre la necessità di puntare meno sulla messa in scena e più per “la ricerca dell’esattezza”, utile ai lettori per “trovare un riferimento, una risposta sicura, una convalida, un giornale in cui la competenza prevalga su ogni connivenza” (1). Si tratta di una risposta ad un trend preoccupante che anche il direttore dell’International Herald Tribune, Walter Wells, ha di recente messo in guardia sulle conseguenze dell’entrata in borsa delle imprese che si occupano di informazione: “Spesso, chi deve prendere una decisione giornalistica si chiede se ciò farà abbassare o aumentare di qualche centesimo il valore borsistico delle azioni dell'impresa editrice. Un genere di considerazioni diventato talmente importante che i direttori dei quotidiani ricevono costantemente direttive in merito da parte dei proprietari che finanziano il giornale. È un fatto nuovo nel giornalismo contemporaneo, non era così prima” (2).

L’informazione è un’arma di guerra? Sul versante politico, un’alleanza tra il governo in carica e gli organi di stampa può risultare prolifica quando decisioni fondamentali devono essere avvallate dal consenso dell’opinione pubblica. A cavallo degli anni ottanta e novanta, il presidente statunitense George Bush riteneva che dopo il dominio dei mari, dei flussi commerciali e del nucleare fosse giunta l’ora del dominio dell’informazione. Il figlio, George W., ha fatto tesoro di questo insegnamento nell’escalation della guerra in Iraq, combattuta sul fronte militare in Mesopotamia e sul fronte informativo a casa, attraverso i media. A proposito, il progetto attuato di giornalisti embedded con l’esercito, tanto da compartecipare alle sofferenze altrui come commilitoni, ha diffuso un punto di vista intimo, assuefando il pubblico alle immagini belliche, rendendole quotidiane e familiari (3). I giornalisti che non hanno optato per l’autonomia sono stati bersagliati, oltre che dai rapimenti, dai cannoni statunitensi, come quando un carro armato colpì l’Hotel Palestine, loro luogo di ritrovo, uccidendone un paio. L’informazione fa dunque paura per il potere e per i cittadini, che non sempre sanno come approcciarla o come fronteggiarla. Cercarsi le notizie è possibile, osservare le news televisive o leggere un articolo in modo critico è possibile, ma non sempre si ha tempo e indicazioni precise. In internet, per esempio, si accede a un tale marasma di notizie e informazioni che, una volta individuati filtri e punti di riferimento, permette un utile confronto con le notizie passate e quelle non passate dai cosiddetti main stream media, i media della corrente principale.

(1) In Ignacio Ramonet, Media in crisi, “Le Monde Diplomatique”, gennaio 2005. Vedi Jean-Marie Colombani, “Le Monde”, 16 dicembre 2004.
(2) Ibidem. Si veda “El Mundo”, 12 novembre 2004.
(3) Si veda Nicholas Mirzoeff, Guardare la guerra, Meltemi, Roma, 2004; Federico Montanari, Linguaggi della guerra, Meltemi, Roma, 2004.