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Al bar

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Tante le chiacchiere al bar e argomenti e interpreti sono fra i più variopinti.
Lo sport e la politica sono i temi più scontati come in qualsiasi altro luogo, ma molto più accese e divertenti risultano storie e storielle locali, banalità prese sul serio, il tutto allo scopo di suscitare ilarità e sfottò. Per molto tempo attore principale è stato il vecchio Dome, filosofo e lessicologo, a cui tutti si appellavano. Interessante la sua teoria sullo "schiarimento", causa principale nelle dichiarazioni di guerra. Coniare nuove etimologie era un’altra prerogativa importante, sue sono le espressioni: io non sarebbe, via mavola, per il gusto della farina, anche gli accoglionati campano e altre. Prigioniero in Germania, fu tra i Mugnai volontari che accettarono l’invito dei tedeschi, ma purtroppo non si trattava di macinare grano.

L’arte culinaria è stata per molto tempo tema di acceso conflitto. I cuochi nascevano come i funghi e tutti specializzati. Primeggiava nel "minestrun" Giovanni Costi; "in ti turdè ud patade" Primo da Talada; in "patade e fasêu" Celio Gabrini e così via.
"Al pu risturant ûg fa ben i zampet l'è al "Tato": in mangiaré un camiu".
Il parere è di un nostro amico, insuperabile e sempre fra i primi quando si tratta di svolgere vecchi mestieri: medru, sgar l'erba, batru la frina, guzzar i curtè, taiar la catastra.

Frequente è il ricordo di frasi buttate senza troppo riflettere e in fretta:
- per ciò accadde che fu proiettato il film " Osolemio ";
- che il povero Luca Beccari, ospite assiduo da anni, “dopo morto non si sia più visto”;
- che si porgessero distinti saluti al signore "Piazzale Inzani";
- che si chiedesse al vigile se, per cortesia, potesse " fare il nome di soquante vie ";
- che fosse richiesta una manciata di neve durante la “spalada ".
Chiacchiere veramente in libertà! Si divertiva Tristano, nell'elevare persone semplici a personaggi di rango e amava ricordare di avere partecipato ai festeggiamenti organizzati da Tito in occasione del suo primo miliardo (di vecchie lire, non di euro); trasformò il povero Mantovani nel fratello del presidente della Sampdoria; fece amicizia con un ingegnere, alto funzionario dell'ENEL, nel cui “curriculum” era stata tenuta nascosta una certa predilezione per i pollai.
Fra tante frivole storielle si possono, al bar, formulare espressioni molto impegnative e concettose; questo è l'intervento di un cliente:
"San gu fusa la religiun, tuta l'industria la pasa a l'agricultura!".
Tempo fa chiesi, per scherzo, al nostro Giorgione ragguagli sul significato di una frase di Rosmini, frutto di reminiscenze scolastiche, che trattava della "palingenetica obliterazione dell’io cosciente, che s'infutura nel prototipo archetipo dell’antropomorfismo universale"; la risposta fu immediata: " Sut vêu continuar ad andar al gabinet, an cad mia mnas al carner! ".
“Donne e buoi dei paesi tuoi" recita il proverbio, ma talvolta l'eccezione conferma la regola. Qualcuno ricorda l’articolo di un giornale locale che alla felice conclusione di un amore contrariato così titolava: " Come pioveva a Berceto, e si amavano!
" A Lusigna sorride " affermava l'intrepido Bascin dopo aver scoperto l'anima gemella in quel di Lusignana. Quel Bascin che un lunedì mattina, verso le 6, di ritorno dalle sue scorribande festive, si presentò nella cucina dei Cureza e rivolto alla nonna Margherita gli ordinò: "El ancura a let, Mario? Ciamel su ch'il dev mazar".
Anche della sala dei Cureza serbo il ricordo. Si salutava lo zio Quinto che doveva rientrare a Chicago; il nonno " Iusef" a capotavola e tanta allegria intorno, rotta ogni tanto dalla commozione e dal pianto.
Mi rivedo ancora nel sedile posteriore del servizio pubblico, una vecchia balilla, che ci accompagnava alla stazione ferroviaria di Reggio, con la mia mano stretta in quelle dello zio: fuori era buio e il fiume Enza in piena, destava qualche apprensione. Poi sotto la pensilina, il rumore del treno in arrivo, lo zio che con una mano mia allunga un "half dollar" d'argento e con l'altra mi storce dolcemente un orecchio in segno di affetto, quindi i saluti, gli abbracci, col presentimento che sarebbe stato un addio.
La “malattia” che, tempo fa, colpiva i nostri luoghi era la noia, l’abbandono, l’immutabilità, la staticità, per la semplicità con cui da secoli la gente era assuefatta a vivere e per mancanza di mezzi.
Ne fa testo una storiella raccolta in un paese vicino: un tale torna all’ovile dopo 40 anni trascorsi in terra straniera da emigrante.
“Cosa avete trovato di nuovo a Costa?” gli fu chiesto.
“Niente, io mat! L’à stricà un us qui di Capitenie e l’avert una finestra qui ‘d Pitoc”, la risposta.

Altre caratteristiche locali si identificavano nella paura dell’ignoto, nella sentita religiosità accompagnata da senso del pudore e rispetto umano: testimone di ciò un’altra storiella.
Protagoniste due donne all’angolo di una strada, apparentemente appartate e nascoste, come fa lo struzzo con la testa sotto la sabbia.
“Ala tot marì vostra fiêula?” chiede la prima.
“No” risponde la seconda.
“Purchè ieva suntù dir cl’era inscinta” ribatte la prima.
“Si, ma mia cum a dis la jêunta” conclude la seconda.

(Sergio Galassi)