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Handicap: un’etichetta alla base della diversità e della paura

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Qualche anno fa, in una scuola elementare mi trovavo a mensa coi bambini. Il mio compito era seguire un ragazzo che presentava un ritardo mentale. Ad un tratto, il ragazzo disabile, allunga le mani sul panino di una compagna e ne stacca un morso, senza che lei lo noti; passa qualche minuto, la compagna a sua volta morde il panino. Gli altri bambini ridacchiano, poi qualcuno le confessa quel che era successo. La compagna è una brava bambina e sul momento non dice nulla, ma il suo volto si incupisce. Fino alla fine del pasto, non proferisce più parola. Poi si avvicina e mi sussurra: “Non è che ora mi ha attaccato la sua malattia?”.

(l’autore desidera rimanere anonimo)

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La definizione di handicap conosciuta risale al 1980, quando l'Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS) pubblicò la "Classificazione Internazionale delle Menomazioni, delle Disabilità e degli Svantaggi Esistenziali", che differenziava tre livelli:
1_ Menomazione: qualunque anomalia permanente, anatomica o psicologica - esteriorizzazione;
2_ Disabilità: qualsiasi limitazione o perdita della capacità di compiere attività di base considerate normali per un essere umano - oggettivazione;
3_ Handicap: qualunque condizione di svantaggio che impedisce al soggetto l'adempimento (totale o parziale) di un ruolo sociale considerato “normale” in relazione ad età, sesso, contesto socio-culturale - socializzazione.

Nel 1999 l'OMS pubblica la "Classificazione Internazionale delle Menomazioni, delle Attività personali (ex-Disabilità) e della Partecipazione sociale (ex handicap o svantaggio esistenziale)" (ICIDH-2), nella quale il termine "handicap" viene accantonato, e vengono rivisti due dei tre concetti importanti:
• esteriorizzazione: menomazione;
• oggettivazione: non più disabilità ma attività personali che considerano le limitazioni di natura, durata e qualità che una persona subisce nelle proprie attività, a qualsiasi livello di complessità, a causa di una menomazione strutturale o funzionale. Sulla base di questa definizione una persona è diversamente abile;
• conseguenze sociali: non più handicap ma diversa partecipazione sociale, che considera le restrizioni di natura, durata e qualità che una persona subisce in tutte le aree o gli aspetti della propria vita a causa dell’interazione fra le menomazioni, le attività ed i fattori contestuali.

Ma il termine handicap, per quanto ridefinito anche dall’OMS nella definizione di persona “Diversamente Abile” o Dis-Abile, continua a essere parte integrante delle situazioni sociali: dalle improprie e offensive dei linguaggi comuni, a quelle di reale disagio fisco o psichico.

Quando pensiamo al Disabile, una delle prime parole che ci vengono in mente è “assistenza”, intesa in un allargamento degli orizzonti, in una mancanza.
Lo vediamo nella scuola dove, oltre che in famiglia, il bambino/bambina è presente la maggior parte del tempo, in un ambiente sociale importante nel quale rapportarsi, e nel quale gli “altri bambini” debbono rapportarsi a Lui. Ma anche a scuola, esattamente come nella società, questi bambini non sono come gli altri. L’handicappato è un diverso, è handicappato.
Implicitamente o esplicitamente, è questo il messaggio che viene socialmente trasmesso ai “normali”. Messaggio da cui scaturiscono comportamenti di diffidenza e pietismo, ostilità e tenerezza, falsità e timore. Il diverso fa paura perché mette a nudo la nostra vulnerabilità, scriveva Julia Kristeva alcuni anni fa. E se osserviamo riconosciamo vari gradi di paura: banalmente si va dalle gambe che tremano a una semplice strizzata d’occhi, così come notiamo vari modi per combattere la paura, a partire dalla negazione della paura stessa. Forme di paura che, non sorprende, possono condurre anche alla violenza, quando ragione ed educazione sentimentale non riescono a prevalere. Nel caso di ragazzi che picchiano il loro compagno diversamente abile e riprendono il tutto in un filmato, è sicuramente scattata una forma di violenza che contempla in malo modo la diversità: dove l’immagine che si ha delle vittime è di per sé contaminata da sentimenti più o meno inconsci.

Il tema dell’handicap (che sia mentale o fisico) crea spesso un distacco concreto e morale. Storicamente si è teso ad emarginare i soggetti “non normali”, e in modi più o meno altalenanti (a torto e ragione) ancora oggi si cerca di inserirli in contesti “protetti”, composti da altri “soggetti come loro”. Per quanto istruiti o sensibili possiamo essere è un atteggiamento ricorrente, un dato di fatto, che si presti l’occhio alla differenza, prima che alla corrispondenza. Qui nasce l’etichetta di diverso. Etichetta che poco contempla un dato tangibile e costante: tutti siamo diversi e quindi “diversamente abili”.
L‘etichetta si trasforma (talvolta) in un concetto nocivo. Abbiamo imparato a vederla come principio di certi comportamenti (dove nasce prima l’etichetta dell’atteggiamento stesso, come nella Teoria dell’Etichettamento) e, in un modo o nell’altro permane indissolubile nel nostro modo di pensare e di giudicare. Un bambino con un grave disagio che ne compromette le attività quotidiane, un disabile, è sempre visto e trattato come un diverso: si vede quello "che non sa fare" e scarsamente si contempla il Suo "saper fare".

Storicamente alcune teorie sull’autismo, ad esempio, ne vedevano (erroneamente) un seguito di atteggiamenti materni soffocanti; ma siamo prima degli anni 50 (circa), un contesto dove il pensiero psicoanalitico influenzava negativamente le terapie su questi bambini, e dove conoscenze specialistiche ancora mancavano. Ma seppure non eravamo ancora arrivati alle conferme della neurologia sulle disfunzioni cerebrali di talune patologie, questi bambini giudicati lesionati da comportamenti inadatti erano già tenuti a distanza, in appositi istituti dove erano curati e studiati. L’allontanamento permetteva, e permette, sicuramente condizioni favorevoli al proseguire di determinati studi e conoscenze in loro favore, ma forse facevano (e fanno) anche paura e forse si scontravano con l’ottica di regolazione sociale dei comportamenti che nel secolo passato (in maggior misura) fu involontariamente inaugurato dalle discipline medico/psichiatriche (e psicologiche).

Nel proseguire degli anni si sono fatti enormi progressi; gli studi relativi alle disfunzioni che stanno alla base delle menomazioni delle attività personali della persona proseguono senza sosta. Ma per quanti avanzamenti scientifici e sociali facciamo, il diverso continua ancora a restare (senza intenzione) tale.
Personalmente ritengo sia un concetto ed un contesto educativo, dove spetta alla società educante (in priorità: genitori, insegnanti, educatori, ecc) cercare di estirpare il giudizio etichettante evitandone la stessa nascita. Un ambizione sicuramente molto difficile, soprattutto in un contesto sociale dove il concetto di normalità è così complesso e molto spesso equivocato. Come scrive Giovanni Jervis, il concetto di normalità può avere un significato statistico, per indicare la maggior frequenza di un certo evento oppure l'attesa che un certo evento abbia luogo. Così le convenzioni che si stabiliscono tra gli esseri umani si fondano sull'aspettativa che gli altri individui si comportino nel modo che tra noi è normale. Ma il concetto di normalità ha più connotazioni relative, non ai comportamenti messi in atto, ma a quelli che dovrebbero accadere. “La suddivisione tra normale e anormale nasconde spesso l'appello a un criterio di valore, che esprime un giudizio sulla condizione di esclusione sociale di alcuni”.
Il Progetto di Vita di questi ragazzi, di queste persone, nella società odierna, continua a restare un progetto di vita di un handicappato.

Molti bambini Diversamente Abili, i Disabili, vengono classificati come riluttanti al socializzare, ma qualche volta si scopre, invece, che è frutto della distanza che viene imposta tra il normale e l’anormale. Canevaro sostiene, infatti, che una persona è relativamente handicappata, l’handicap è quindi un fatto relativo e non un assoluto, è un incontro fra individuo e situazione: uno svantaggio riducibile o aumentabile. E soltanto la Società, collettivamente, può operare per ridurre progressivamente, sempre più, lo svantaggio e la distanza.

Vincere la paura del diverso si può, facendo il tentativo di avvicinarsi a lui, non con tecniche particolari, solo partendo dalla normalità nella disabilità.