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Antidepressivi: consigli per l’uso

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La depressione è una patologia grave, invalidante e dal forte impatto sociale. Si stima che entro l’anno 2020 la depressione maggiore rappresenterà la seconda malattia invalidante nel mondo, preceduta solo dalla cardiopatia ischemica. Il suo andamento ciclico e cronico e il rischio di suicidio ad essa correlato (circa 20%), in aggiunta all’estrema diversità delle forme depressive che spesso si nascondono dietro segni e sintomi fisici confondenti, ne rendono difficile la definizione, l’individuazione e il trattamento terapeutico (vedi La depressione. Quando tutto provoca un senso di disagio. Cos’è? Cosa accade? E cosa fare..., di Cosimo Aruta).

Attualmente, questa patologia viene prevalentemente trattata utilizzando la farmacoterapia (antidepressivi), la psicoterapia o la loro associazione. Gli antidepressivi si sono dimostrati efficaci in circa i due terzi dei pazienti, anche se il dibattito sul loro rapporto rischio/beneficio rimane tuttora aperto. Uno dei problemi principali che questa tipologia di farmaci presenta è legato al tempo necessario affinché gli effetti farmacologici si manifestino: possono servire anche 4-6 settimane di assunzione prima di iniziare a vedere qualche effetto terapeutico. Questo può rendere difficile il trattamento, soprattutto nella fase acuta (iniziale) della malattia - cioè proprio quando il paziente avrebbe più bisogno di beneficiare degli effetti del farmaco - e rappresenta una delle principali cause di interruzione del trattamento. Normalmente, dopo il trattamento della fase acuta (circa 6-8 settimane), che ha l’obiettivo di migliorare (almeno del 40-60%) o eliminare i sintomi e ristabilire le funzionalità psicosociali e occupazionali del paziente, il farmaco va assunto per un periodo variabile di 4-5 mesi, necessario a prevenire eventuali ricadute. La fase successiva (di mantenimento) può proseguire per un periodo più o meno lungo (da un anno a tutta la vita) e dipende da molti fattori legati alla forma depressiva (lieve, moderata, severa), alla probabilità di ricadute, alle caratteristiche del soggetto stesso (età, sesso, familiarità alla depressione, contesto di vita).

E’ importante che il paziente al quale sono prescritti degli antidepressivi sia correttamente “educato” da parte del medico e informato sul decorso/andamento della malattia, sui suoi sintomi, sulle possibili terapie disponibili (farmacologiche e non, e non necessariamente come semplici alternative, ma anche come possibili percorsi da abbinare alle terapie pre-esistenti) e su tutti quegli accorgimenti (alimentazione, attività fisica, stile di vita) che lui stesso può adottare per favorire il raggiungimento della sua guarigione. Nei casi più gravi però, quando la fase acuta del disagio si manifesta, per esempio, attraverso forme di pericolosità del soggetto verso se stesso o comunque nelle situazioni di più difficile gestione, il raggiungimento di una adeguata consapevolezza da parte del soggetto può non essere possibile all’inizio della terapia. In questi casi, sta al medico capire come muoversi e quali strumenti adottare per superare questa fase iniziale e portare il soggetto verso una prima presa di coscienza. Al paziente spetta il compito di comunicare sempre il proprio disagio e di collaborare (la comunicazione e la collaborazione sono talvolta punti deboli nelle patologie della sfera affettiva) adottando uno stile di vita che favorisca il percorso di guarigione.

I meccanismi fisiopatologici alla base della depressione sono ancora poco chiari: sono state formulate diverse ipotesi, che fanno tutte capo ad una riduzione/insufficienza nei livelli di uno o più neurotrasmettitori (serotonina, noradrenalina, dopamina). Gli antidepressivi, che possono essere suddivisi in diverse categorie, agiscono proprio a livello di questi neurotrasmettitori, rallentando il loro riassorbimento o impedendo la loro distruzione (così da prolungarne l’azione).
Dando una classificazione di massima, le classi principali di antidepressivi sono rappresentate da: antidepressivi triciclici (come l’imipramina, l’amitriptilina, la nortriptilina, che rallentano il riassorbimento della noradrenalina prolungandone gli effetti), inibitori della ricaptazione della serotonina (SSRI come la fluoxetina, la sertralina, la paroxetina, il citalopram, che rallentano il riassorbimento della serotonina), inibitori delle monoaminossidasi (iMAO, che impediscono la distruzione dei neurotrasmettitori) e altri. Antidepressivi triciclici e iMAO sono stati sviluppati ed utilizzati già dagli anni ’40 circa. Negli ultimi anni, la ricerca si è mossa verso altre molecole, dal meccanismo d’azione differente, ed è arrivata allo sviluppo degli SSRI, oggi suggeriti come farmaci di scelta in molti casi di depressione. A dire il vero, le evidenze scientifiche attuali non confermano le iniziali aspettative/speranze che vedevano questa nuova classe di farmaci più efficace e sicura dei precedenti antidepressivi. Il dibattito sulla reale maggiore efficacia di questi nuovi farmaci è ancora aperto ed altrettanto rimane aperto il dibattito sulla loro sicurezza e tollerabilità, che seppur migliorata rispetto alle vecchie molecole, non sembra esserlo in modo così rilevante.

Dal punto di vista degli effetti collaterali ogni classe terapeutica presenta degli effetti caratteristici che aumentano, generalmente, all’aumentare della dose assunta e che si manifestano principalmente all’inizio del trattamento per diminuire poi gradualmente nel corso della terapia: i triciclici possono causare secchezza della bocca, stitichezza, sonnolenza, confusione, ritenzione urinaria, aumento di peso, alterazioni a livello della funzione sessuale ed effetti cardiovascolari quali ipotensione, tachicardia, alterazioni nel battito cardiaco (pericolosi soprattutto in caso di sovradosaggio); gli SSRI possono causare alterazioni a livello gastrointestinale come nausea, vomito, diarrea ed in rari casi agitazione, confusione, tremori, cefalea, ansia e alterazioni a livello della funzione sessuale; gli iMAO possono causare insonnia, nausea e ipotensione e non presentano cardiotossicità.
L’acceso dibattito relativo all’aumentato rischio di tentativi di suicidio associato all’assunzione degli SSRI è tuttora irrisolto. Le evidenze mostrano un aumentato rischio di tentativi di suicidio negli adolescenti che assumono SSRI soprattutto nelle prime due settimane di trattamento, mentre negli adulti questo dato non è confermato. Purtroppo, trovare delle evidenze specifiche in questo caso risulta difficile, poiché il tentativo di suicidio rappresenta anche un possibile sintomo della malattia: la sua comparsa, quindi, potrebbe essere dovuta alla patologia e ad una non efficacia del farmaco in taluni casi, così come potrebbe essere un evento avverso legato al farmaco in altri casi.

Tutti questi farmaci possono potenzialmente interagire con altri principi attivi, per questo è importante informare sempre il proprio medico e il farmacista riguardo a tutto quello che si sta assumendo, in modo da evitare interazioni tra molecole. Per esempio, molecole come i contraccettivi orali (la pillola), l’acido acetilsalicilico (l’aspirina), gli ormoni tiroidei, la fenitoina, il metilfenidato, gli antistaminici, la levodopa, i sedativi ipnotici e l’alcool possono aumentare la tossicità degli antidepressivi triciclici. La carbamazepina e il tabacco possono ridurre il loro effetto antidepressivo. Per quanto riguarda gli SSRI, per esempio, la fluoxetina causa un aumento nella concentrazione di benzodiazepine (ansiolitici), se assunte contemporaneamente ad essa. Ancora, gli iMAO possono interagire con molti alimenti e bevande ricchi in tiramina come formaggi, pesce, vino, ecc.: la loro interazione può causare una crisi ipertensiva (anche per questo oggi questi farmaci sono poco utilizzati).
A livello naturale l’iperico (o Erba di S.Giovanni) presenta delle proprietà antidepressive e può essere utilizzato in alcuni casi di depressione. E’ importante comunicare sempre al medico la sua eventuale assunzione e non associarlo mai all’assunzione di altri farmaci ad azione antidepressiva per evitare pericolose interazioni tra molecole.

Una volta trascorso il periodo di mantenimento di circa 6-8 mesi senza ricadute, per il medico è possibile preventivare la sospensione più o meno graduale della cura farmacologica. A questo proposito, è importante che il farmaco sia sospeso gradualmente (6-8 settimane per un trattamento di 6-8 mesi), riducendo lentamente il dosaggio e non interrompendo mai bruscamente la sua assunzione per evitare la comparsa della cosiddetta sindrome da sospensione, che si manifesta in modo simile ad una ricaduta depressiva ma con sintomi lievi e di breve durata. E’ importante che il paziente sia a conoscenza di questa possibilità, per evitare che la comparsa di questi sintomi possa agitarlo o fargli credere di essere di fronte ad una ricaduta. In particolare, per i triciclici si possono manifestare sintomi gastrointestinali (nausea, diarrea), fatica, ansia e agitazione, alterazioni del sonno. Per gli SSRI nausea, letargia, mal di testa, ansia, sudorazione, insonnia. Normalmente gli effetti svaniscono entro 1-2 settimane dalla sospensione.

Alla luce di tutto questo (diversità delle forme depressive, particolarità e diversità di ogni soggetto, esistenza di differenti trattamenti terapeutici ed in particolare di differenti possibilità farmacologiche di efficacia e tollerabilità paragonabile), ritengo doveroso sottolineare che è sempre indispensabile rivolgersi al proprio medico curante nel caso in cui si abbia il sospetto di trovarsi di fronte ad un problema di tipo depressivo o si percepisca di vivere una situazione di disagio. Esprimere il proprio disagio è importante, soprattutto per patologie che possono mascherarsi sotto molteplici segni e sintomi e dove la sensibilità del singolo medico potrebbe non arrivare subito al problema. La scelta di preferire una psicoterapia piuttosto che un trattamento farmacologico o l’associazione dei due deve essere valutata attentamente ed è sempre una scelta specifica ed individuale, che varia da caso a caso, da soggetto a soggetto. Il farmaco rappresenta uno strumento molto delicato e complicato da utilizzare, tanto che anche per gli addetti ai lavori non è spesso semplice identificare il dosaggio corretto ed il periodo corretto di trattamento, ma risulta talvolta necessario per poter operare poi anche una proficua psicoterapia. E’ indispensabile che il paziente non assuma assolutamente questa tipologia di farmaci senza il consiglio e il controllo del medico, soprattutto nella prima fase del trattamento (fase acuta), quando i possibili effetti collaterali sono più temibili. Il controllo deve essere attento e costante, sia da parte del medico che del paziente. Il paziente non deve stabilire da solo le dosi da assumere ne modificare o sospendere l’assunzione del farmaco senza consultare prima il medico.

Se il farmaco può essere un valido alleato contro la depressione, lo sono altrettanto anche tutti quei piccoli accorgimenti che ognuno di noi può adottare per migliorare il proprio benessere psicofisico e, nello specifico, la propria funzionalità cerebrale (alterata in caso di depressione): attività fisica costante, alimentazione equilibrata, conduzione di ritmi di vita adeguati all’organismo e non troppo veloci/stressanti sono essenziali sia nella prevenzione che nella cura di disagi quali quello depressivo. Proprio in quest’ottica, negli ultimi anni sono aumentati gli studi clinici volti a mettere in evidenza come l’attività fisica e l’alimentazione abbiano un ruolo centrale e importantissimo anche in questo tipo di disturbi. Uno studio del 2001, per esempio, ha evidenziato come l’attività fisica svolga un importante effetto antidepressivo anche in casi di depressione maggiore in tempi addirittura più rapidi di quelli richiesti dagli antidepressivi. Dal punto di vista dell’alimentazione, per esempio, vi sono evidenze dell’effetto benefico dell’olio di fegato di merluzzo (e in generale degli Omega-3 presenti nell’olio di pesce) sia nella prevenzione della depressione che come supporto durante i trattamenti farmacologici. Un recente studio, condotto presso l’Università di York, sembra suggerire una associazione tra bassi livelli di folati (vitamina B) e rischio di depressione: una corretta assunzione di questa vitamina, quindi, potrebbe aiutarci a prevenire l’insorgenza della depressione.
Il delicato equilibrio che caratterizza ognuno di noi è sensibile a molteplici stimoli (nel bene e nel male). In casi come la depressione, dove cioè il farmaco rappresenta uno strumento ancora poco conosciuto e a volte mal utilizzato, è necessario uno sforzo totale, a 360 gradi, da parte sia dei medici sia dei pazienti verso un approccio terapeutico che vada oltre il semplice farmaco. Condurre uno stile di vita adeguato, ridurre gli eventi stressanti che possono alterare il nostro equilibrio, seguire un’alimentazione corretta, eseguire una costante attività fisica (non serve esagerare), non isolarsi ma stare con gli altri rappresentano non solo degli utili consigli, ma delle evidenze certe e scientificamente fondate di come ciascuno di noi possa e debba fare il possibile per mettersi nelle migliori condizioni per poter superare il proprio disagio.