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“Se vuoi coltivare la pace custodisci il creato”

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Riportiamo il discorso fatto dal nostro Vescovo, mons. Adriano Caprioli, ieri sera, introducendo a Reggio Emilia la marcia per la pace.

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Dopo il saluto introduttivo di Don Emanuele Benatti, parlare per primo ha almeno un vantaggio: quello di non ripetere quello che altri, magari meglio, hanno già detto.
La gente oggi, soprattutto in quest’ora, non ama affrontare grossi problemi. Non è più abituata alla fatica di pensare. Ama i pensieri già pensati, tradotti in formule semplici e facilmente accattivanti. In un contesto del genere è facile la tentazione della fuga dalla città. Si è tentati di una sorta di ripiegamento su vasta scala da ciò che è complesso a ciò che è semplice, da ciò che è gravoso a ciò che è leggero, dall’universale al proprio particolare, dal sociale al privato.

Parlare per primo stasera è assumersi anzitutto il compito di risvegliare le domande che siamo tentati di lasciate ad altri; darsene una ragione in prima persona, non rispondere troppo in fretta, assumersi qualche responsabilità.

E le domande sono tante sul tema di questa sera, di questa 43ª Giornata mondiale della pace: “Se vuoi coltivare la pace, custodisci il creato” — ringraziamo Papa Benedetto XVI per averci dato questo tema. Che cosa fare per la tutela dell’ambiente? E quale ambiente chiede anzitutto di essere tutelato: l’acqua, l’aria, la terra? E tutelato per chi: per noi, per i paesi poveri, per quelli che verranno dopo di noi?

Sono queste le domande concrete da cui partire questa sera, aiutati dagli operatori sul campo: il centro giovani “La Gabella”, il Comitato “Acqua bene comune”, “Il Granello di senapa”, la Cooperativa sociale “L’ovile”, l’Associazione “Rurali Reggiani”.

Credo che la domanda capace di mettere in fila tutte le altre domande sia una sola, quella che sta alla fine del percorso di questa sera: ma quale uomo, quale tipo di civiltà, quale modo di abitare la città dobbiamo cercare per salvaguardare la natura e custodire il creato?

I giovani de “La Gabella” hanno già chiarito una cosa: non si può più dire “gli affari sono affari”. Succede, quando l’abitante della città si trova preso dentro una rete intricata di relazioni, sempre più numerose e diversificate. In ciascuna di esse vigono comportamenti diversi, alla fine speculativi, riguardanti il mercato immobiliare e l’insediamento delle attività commerciali.
Il proverbio inglese dice che “gli affari sono affari”, e che gli affetti non c’entrano, e così pure la più elementare regola di convivenza: “non fare agli altri ciò che non vorresti fosse fatto a te e ai tuoi di casa”.

E c’è una seconda cosa che chiede di essere chiarita: il problema che pone la questione ambientale non è anzitutto quello di difendere la natura minacciata dall’opera dell’uomo ma quello di verificare la qualità di tale opera.

L’invito è a dare e conservare alla città quel contesto umano che è dato anzitutto dall’abitare la città. Come? Quali priorità? Mettendo al centro non l’individuo ma la persona soggetto di relazioni, ridando piena cittadinanza alla famiglia – compresi i nuovi arrivati — conservando alle parrocchie il loro volto originario di “comunità tra le case”, non riducendo quindi la città e in particolare il centro storico ad apparato di servizi e il cittadino a cliente che reclama il servizio per ciò che ha pagato.

La sfida è progettuale e culturale. Il riferimento è ad una cultura della città e del suo territorio come luoghi, non solo dell’innovazione, ma della tradizione intesa come abitare, come dice la parola, cura delle buone relazioni di vicinato, sistema di vita insieme, fatti di costume, centralità delle piccole comunità: casa, scuola, circoli, chiese, piazze in cui vivere esperienze di coralità e di festa.

“Parole, parole, parole…”, dice la nota canzone. Sì, parole che invitano a fare un cammino verso il volto di una città dell’uomo: quella non delle sette o delle settantasette meraviglie (cfr. I. Calvino, Le città invisibili, citato dai giovani de “La Gabella”), ma di una sola meraviglia: quella dell’uomo capace ancora di meraviglia per le cose belle, giuste, salutari che il mondo creato da Dio gli ha lasciato da custodire.

Se è ancora vero, come prefigurava G.K. Chesterton: “Il mondo non finirà per la mancanza delle meraviglie del creato ma per l’incapacità di meraviglia nel cuore dell’uomo”. Parole, queste, da “mettere ai piedi” con questo momento tradizionale della marcia per le vie della città! E allora: “BUON CAMMINO”!!

+ Adriano VESCOVO