Home Società “I giornalisti battezzati dovrebbero essere coscienti che fanno (anche) informazione ecclesiale”

“I giornalisti battezzati dovrebbero essere coscienti che fanno (anche) informazione ecclesiale”

2
0

(REGGIO EMILIA) - In mattinata a Roma, in diretta per le telecamere della televisione di Stato; nel pomeriggio a Reggio per il tradizionale incontro dei giornalisti delle varie testate (anche alcuni membri di questa redazione erano presenti) in occasione della festa del loro patrono, S. Francesco di Sales; in serata a Crema, per un ulteriore impegno. I 62 anni di don Bruno Fasani sono ottimamente portati, nella lucidità della mente come nel vigore fisico.

“Chi è battezzato e fa informazione deve essere cosciente che fa informazione (anche) ecclesiale”. Mette subito in chiaro cosa deve sempre tenere ben a mente mentre muove la penna o digita i tasti del pc lo scribacchino che si professa cattolico. “E’ chiaro che ci sono vari ambiti nell’informazione”; come va da sé (dovrebbe andare da sé) che “se si può essere pluralisti su molti terreni (come quello politico) non lo si può essere su tutti: come cristiani sappiamo che ‘non vi è libera uscita’. Esempi: la famiglia, la vita…”.

Don Bruno insiste poi sulla necessità di fare “informazione umanizzante”. Fa riferimento, anche, alla vicenda di Dino Boffo, direttore de L’Avvenire, quotidiano della Cei, che come si sa è stato preso di mira dal suo omologo de Il Giornale, Vittorio Feltri (che poi, a frittata fatta – dimissioni di Boffo avvenute – ha anche avuto la “delicatezza” di scusarsi per quanto gli ha imbastito contro). “Nel mondo della comunicazione l’interesse verso ciò che accade nella Chiesa è cresciuto. Basta dare un occhio al numero dei corrispondenti accreditati presso la S. Sede”. Ma, pur se “il giornalismo cattolico gode di buonissima salute” ugualmente si riscontra “fatica nel ‘venire fuori’”, farsi ascoltare da un pubblico più vasto. Le notizie vengono sfornate soprattutto da agenzie laiche, che se ne infischiano del terzo modo (l’80% di esse riguarda il nostro occidente, il nostro terreno); e dato poi che tanto volontariato della Chiesa si manifesta in quelle zone, ecco che di conseguenza esso viene totalmente ignorato dalla “grande” informazione.

Poi parla della rivoluzione culturale in corso, cioè il passaggio dal cartaceo all’elettronico. Fa un paragone con l’epoca di Gutenberg, allorquando, come noto, si passò alla stampa dei libri, con tutto quello che ne conseguì in termini di possibilità di diffusione del sapere. Il cartaceo comunque mantiene caratteristiche che, a quanto pare, almeno per ora, non comporteranno una sua troppo sbrigativa messa in soffitta. Come definisce “sintetico e sincronico” il mezzo elettronico, così invece rimane “diacronico e profondo” il libro, ancora capace di suscitare la riflessione e una possibilità di pensiero che più difficilmente sono stimolati dal primo, che punta e fa leva più sulla parte emotiva dell’uomo (qui fa riferimento all’opera di Z. Bauman sulla società liquida). La cultura elettronica è comunque, con tutta evidenza, la cultura dell’oggi; e quindi “non si può rimanere a rimpiangere il passato”. “Compito del prete è quello di contribuire a mantenere la memoria (non solo memoria emotiva, qual è quella di internet) e il tessuto delle relazioni della società”.

Don Fasani esprime poi “sofferenza nel vedere tanti simboli della cattolicità usati (sfruttati) nella pubblicità”.

Informazione cattolica e cultura, cosa ne esce da quest’incontro? “L’informazione è un prodotto e sempre più di frequente accade che invece che domandarsi se è vero ciò che si scrive (e chi legge dovrebbe fare sempre più spesso esercizio in tal senso, vieppiù in un contesto come quello attuale, ndr) ci si chiede piuttosto – tra gli editori, nelle redazioni – cosa scrivere per vendere”. Questo perché le imprese editoriali sono ormai eminentemente dedite al commerciale. “Vendono meno ma ci saltano fuori lo stesso; allegando gadget e altro…”. Alzando i toni, ad esempio. Notizia: il vescovo “parla”? No, “demonizza”. Aggiugiamo pure: l'opposizione "critica"? No, "odia". Magari può non essere troppo preciso, un titolo così, però forse attrae di più… “Avendo a che fare con una società emotiva l’informazione si adegua”. E spesso il giornalismo ha poco rispetto, oltrechè per la verità, anche (ma probabilmente va da sé) per le persone: “Mai perderle di vista – spiega – le persone sono la ‘casa di Dio’”. Al proposito, sul caso Boffo don Fasani ammette comunque che “qualche parte della Chiesa non è stata limpidissima…”.

“No alla cultura nichilista, che non è tanto e solo la cultura del nulla ma – peggio – quella che afferma che una cosa vale l’altra”. La famosa questione del sentire le due campane su ogni argomento. Don Fasani non è d’accordo. Ne fa una questione di democrazia, di numeri. Il rischio – spiega – è quello di trovarci di fronte non ad un’auspicabile ed auspicata pluralità ma ad una frantumazione. E riferisce di quella “società dei diritti dove però mancano i doveri comuni”.

Esposizione del crocifisso. Argomento caldo, dopo la sentenza della Corte europea dietro ricorso di una cittadina. “Si tratta – scandisce don Fasani – di un problema culturale, non concordatario”. E illustra una distinzione tra quelli che, secondo lui, sono i diritti “positivi” e i diritti “negativi”.

Cita alcuni noti saggisti (per esempio Engelhardt) per sostenere che certe (loro) tesi che vorrebbero misurare la vita e la dignità umana su basi quantitative sono aberrazioni. Per concludere: “L’informazione deve essere per la vita”.

* * *

Segue un'oretta di domande del pubblico. Uno chiede a don Fasani se abbia un "profilo Facebook". Risposta: "No". Un altro si informa se talvolta la censura del giornalista non possa chiamarsi responsabilità. Risposta: "Sì".

* * *

Battuta finale del vescovo, mons. Adriano Caprioli, quando ormai sono trascorse (velocemente, data la bravura dell’oratore) quasi due ore: “Si dice che c’è una tolleranza audio: le prime due ore sono dello Spirito Santo, poi c’è il diavolo…”. E in effetti il suo intervento (sostiene che “non è tanto importante arrivare primi sulla notizia quanto sulla sua interpretazione” e che “vi è necessità di informazione vera, sul campo”) sarà molto breve. Per stavolta, quindi, diavolo scongiurato!

* * *

L'INTERVENTO DEL VESCOVO ADRIANO

Cerco di riassumere le tante cose ascoltate — di cui ringrazio in particolare il Relatore, Don Bruno Fasani — a partire dal tema dato: “Media cattolici: voci della Chiesa o no?”. Giustamente è una domanda che in modo diverso tocca operatori e lettori cattolici, come anche giornalisti laici, di cui ringrazio per la presenza, segno di quell’anticipo di simpatia reciproca, che faceva dire a quel talento di comunicatore quale era Giovanni Paolo II: “Non c’è motivo per cui le differenze debbano rendere impossibili l’amicizia e il dialogo”.

Come allora dar voce alla Chiesa nell’odierna diversità e sovrabbondanza di informazioni? E, soprattutto, perché farlo? Cerco di rispondere, riannodando i tanti pensieri che affollano la mia mente attorno a tre messaggi che mi sono cari.

Primo: il Vangelo è per tutti.

Non è detto che il messaggio di Gesù abbia da dire o da dare qualcosa solo a chi lo accoglie nella fede. Certamente, la Chiesa non potrà mai ridursi ad essere una comunità riunita attorno alla edicola del giornale, al televisore, a internet… Questo è vero. I canali privilegiati della evangelizzazione, della catechesi e di ogni altra comunicazione cristiana rimangono quelli costituiti dall’incontro vivo e responsabile tra gli uomini nella comunità cristiana, a partire dalla realtà parrocchiale.

E, tuttavia, la Chiesa non può evitare che l’opinione pubblica si interessi di cose ecclesiastiche, a proposito e a sproposito. Non può e neppure vuole evitarlo; essa rispetta la funzione e la pluralità dei centri della diffusione culturale. Anzi, essa si serve dei mezzi della comunicazione sociale, che sono strumenti tipici del nostro tempo e utili per la conoscenza e la formazione degli uomini.

Non è un caso che Gesù incominciasse a parlare alla gente, raccontando parabole. E a tutti rivolgeva la domanda: “Che ve ne pare? Il seminatore uscì a seminare… un padre aveva due figli… una casalinga ebbe a smarrire un giorno il tesoretto, oggi il libretto della pensione… un uomo scendeva da Gerusalemme a Gerico e incappò nei briganti che lo spogliarono…”.

Nondimeno, Gesù osava annunciare la novità a lui cara del Regno di Dio, confrontandolo con vissuti indotti dalla esperienza di vita quotidiana della gente di casa, di lavoro, di sofferenza e di festa, di cui lui stesso doveva essere buon osservatore… — perché no? — giornalista del suo tempo, arrivando un giorno a lamentarsi: “Sapete discernere i giorni e le stagioni, ma non i segni dei tempi!”.

Naturalmente bisogna avere una cura particolare: non far diventare il Vangelo una specie di messaggio esclusivo del credente, al punto che, se uno l’accoglie, esso mi interessa, ma se non l’accoglie, quella persona non mi interessa più.

Il Vangelo interpella ogni uomo, uomini e donne di ogni epoca, quindi anche la nostra. E questo chiede alla Chiesa una rinnovata capacità di acquisire una ulteriore sensibilità nel suo credere, nel suo parlare della propria esperienza di fede. Una sensibilità che favorisca la comunicazione della fede, rendendola accessibile ad ogni uomo.

Sì, abbiamo bisogno di giornalisti — in particolare dei giovani — capaci di scendere dai tetti del pianeta massmediatico per “entrare nelle case”, cioè negli ambienti di vita della gente, andando sul territorio.

Secondo: la persona umana non è mai sola

“Nessun uomo è un’isola”, era il titolo di un libro di un noto conferenziere e divulgatore, il monaco trappista Thomas Merton, assai in voga nel Nord-America negli anni Cinquanta-Sessanta del secolo scorso. Sì, la cultura degli individui non risolve gli spazi di solitudine di una società della fretta e dell’immagine. La persona viene ancora plasmata da una comunità, che le offre le forme del pensare, del sentire e dell’agire. Questo insieme di forme del pensare e dell’agire, che plasmano in antecedenza l’essere umano, lo chiamiamo cultura.

Della cultura fanno parte la lingua comune, le consuetudini, i valori morali, l’arte, le forme di culto e di pietà popolare. Oggi creano sempre più cultura, con nuovi modi di pensare e di agire, i giornali, la radio e la TV. Essi fanno cultura già per il semplice fatto di esserci e di essere diventati componente ordinaria della vita sociale.

Ora il Vangelo, in una certa misura, presuppone la cultura; non la sostituisce, ma la plasma. Il Vangelo chiede di restare aperto a “tutto quello che è vero, nobile, giusto, puro, amabile, onorato” (Filippesi 4,8).

Ma il Vangelo è anche opposizione a ciò che nelle culture sbarra la porta del Vangelo. Ha un suo “taglio” nel vedere le cose e dare le notizie. Non fa dell’irenismo a tutti i costi.

Terzo: un settimanale con un suo “taglio”

Intervenendo tempo fa nel dibattito sulla crisi dei giornali quotidiani, Antonietta Maciocchi, la femminista che aveva elogiato Giovanni Paolo II per la sua lettera enciclica sulla donna “Mulieris dignitatem”, in un articolo pubblicato sul “Corriere della sera” diceva con una battuta, che il foglio più originale fosse “Avvenire” per i suoi inserti di “Agorà”.

E la nostra “Libertà”? Già per il fatto di essere un settimanale, e non un quotidiano, l’intento del nostro foglio è quello sì di raccontare le notizie, ma soprattutto di interpretarle. Non ci interessa arrivare prima nel dare notizia, ma educarci a sostare e a far riflettere.

A questo scopo, il settimanale diocesano, come già di fatto opera, potrà risultare prezioso nel diventare sempre più luogo d’incontro e di confronto tra la varie realtà che compongono la Chiesa e la testimoniano presente sul territorio e nella società, in particolare con quei fogli porta-porta che sono i bollettini parrocchiali.

Ora che il settimanale, come un figlio cresciuto, si presenta in veste rinnovata — una novità paragonabile alle trasformazioni “storiche” da Il Reggianello a L’Azione Cattolica all’attuale La Libertà —, non resta che augurargli di crescere ancora di più nella stima, nel sostegno e nella collaborazione dei lettori a farne come la casa della loro vita comune e il diario di pellegrinaggio del nostro essere cristiani oggi in terra reggiano-guastallese, dal Po al Cerreto fino alle nostre più lontane missioni.

+ Adriano vescovo