Home Cronaca Psiche e società / Chi vive una dipendenza è rinchiuso in un...

Psiche e società / Chi vive una dipendenza è rinchiuso in un labirinto. Per uscirne occorre un filo di Arianna che riconduca a se stessi

22
1

Da sempre l’uomo è stato attratto da sostanze che gli permettessero di alterarne lo stato di coscienza, utilizzandole come evasione, o esplorazione di altre dimensioni, per lenire il dolore diventandone anche dipendente.

Se è vero che ogni società ha le sue droghe di elezione, in quella attuale, post industriale e tecnologica, assistiamo alla nascita di nuove dipendenze, come quella dalla rete, dallo shopping, dalla pornografia, dal cibo, e così via in modo, pare, dilagante.

La dipendenza affettiva può essere classificata tra queste.
La sofferenza d’amore fa parte dell’esistenza umana, ne è testimone la letteratura. Quando il rapporto con l’Altro diventa invalidante per la vita dell’individuo, al punto da non riuscire a staccarsi, allora si può definire dipendenza relazionale.

E ogni dipendenza ha una radice comune, imprigionando l’individuo in un labirinto. Egli si sente in un vortice emotivo che lo spinge a utilizzare Altro per poter esistere, che sia gioco d’azzardo, lavorare in modo compulsivo, o vivere per chattare on line.

Che la nostra società stia attraversando un’epoca di passaggio di cui le nuove dipendenze sono un segnale, è palese. Come in altre determinate epoche storiche, urge trovare una direzione, un filo di Arianna che conduca fuori dal labirinto di ogni dipendenza. Ogni strategia di intervento deve poter riportare l’individuo a ritenersi in grado di funzionare per sé, senza stampelle, ma condividendo se stesso, non aggrappandosi.

Sarebbe importante in ambito educativo e a scopi preventivi, proporre attività di stimolo agli adolescenti a riflettere. In alternativa a un modello di vita frenetico e sempre collegato con l’esterno, dove passa il messaggio che per funzionare c’è il bisogno assoluto di connettersi ad Altro. È necessario invertire la rotta e invitare le nuove generazioni a rivolgersi all’interno, a coltivare uno spazio quotidiano di dis-impegno dalla tecnologia, unplugged, un luogo di svincolo dall’esterno, per coltivare lo spazio del Sé, dove favorire l’incontro e la riflessione su se stessi, dove poter elaborare i significati costruiti Altrove, e farli propri.

Tali proposte possono sembrare semplicistiche e poco attraenti, e a costo zero. Un invito al silenzio, al respiro e a darsi un tempo per scollegarsi dalla tecnologia, dall’Altro e da altro può suonare come invito a un isolamento anacronistico. E va contro un’ottica consumista che vede l’attore sociale moderno sempre “connesso”, mentre pare che egli abbia invece smarrito la connessione primaria: quella con se stesso.

Proprio come Arianna che suggerisce l’idea del filo a Teseo, come guida nel labirinto dove si trova il Minotauro, il mostro metafora del dolore e della sofferenza umana, agli attori sociali attuali serve tessere una nuova trama che porti innovazione e ricostruzione.

Quando i confini si sono espansi in modo estremo, quando si toccano eccessi, occorre fermarsi sulla soglia liminale e riflettere, osservando il nuovo che accade, e il vecchio di cui ci si può liberare.

Se non c’è un rapporto di continua consapevolezza e riflessione su se stessi sarà impossibile instaurare una relazione appagante di sana interdipendenza con l’Altro, ma si sarà mossi da un vuoto interiore da colmare con l’Altro, dalla pretesa che l’Altro ci ami in nostre veci, compiendo quanto non si è disposti a fare, per primi, con se stessi.

Inoltre se l’attitudine è di essere costantemente “altrove” diventa difficile essere presenti a sé e di conseguenza all’Altro. Il vuoto che la persona dipendente sente di dover colmare dall’esterno va sostenuto, attraversato, non evitato.

Osservare ciò che c’è e non voler soddisfare subito il bisogno, stare in quel che accade è fondamentale per uscire da una modalità affettiva infantile, del bambino che vuole e pretende accudimento, subito, senza tollerare la frustrazione dell'assenza dell'oggetto voluto.

Imparare che quel che si vuole fortissimamente, se non c’è, occorre accettarlo, senza assecondare la compulsione di soddisfarne immediatamente il bisogno, per imparare a sentirsi pieni di se stessi, contenendo autonomamente il bisogno, soddisfacendo. Se è ai margini, intesi come i confini tra me e l’Altro, che ci s’incontra, occorre saper riconoscere un centro individuale, il proprio nucleo identitario a cui poter tornare.

Così Arianna fornisce il filo per la via d’uscita dal labirinto a Teseo, che tuttavia, in una versione del mito, l’abbandona sull’isola di Nasso, dove però Arianna, dopo essersi disperata per amore e aver invocato la morte, incontrerà il dio Dioniso. Al posto dell’eroe Teseo, Arianna “guadagna” un dio. L’analisi metaforica del mito di Arianna potrebbe continuare in modo caleidoscopico e svelare migliaia di significati possibili.

Quanto qui ci piace leggere, è un messaggio di ricerca del “divino”, che va oltre un comune soddisfacimento “terreno”. L’incontro tra Arianna e Dioniso pertanto ci riporta, simbolicamente, a una riflessione che esula da un appagamento soltanto materiale, ma ci spinge a considerare qualcosa d’Altro (Dioniso), che non sia solo l’Altro (Teseo). Lo spirito dionisiaco può essere inteso come recupero di una dimensione ludica, giocosa, godereccia, ma anche pura creatività, come libera espressione di Sé.

Il dialogo con se stessi è un processo di ritorno, di ground zero, dove tornare da capo, dopo aver superato la soglia, fuori dal labirinto, per coltivare anche una dimensione verticale, autonoma, in cui si sta “in piedi”. Senza voler sconfinare in un discorso filosofico e spirituale, che esula da questa trattazione, si vuole tuttavia rimarcare l’importanza di poter vivere a più dimensioni, includendo la relazione principale che è quella con il Sé.

Perché se è vero che abbiamo bisogno della presenza dell’Altro che ci accompagni a superare la soglia, a conoscere e a esplorare il “nuovo”, in un processo di infinita contaminazione, è anche vero che il viaggio di ritorno lo si fa da soli, per poter elaborarne i significati, e includerli nel profondo del nostro essere.

Coltivare questo spazio vuoto, dove so-stare, manca in questo momento nella società occidentale, non è permesso, incoraggiato, favorito e divulgato, ma evitato, temuto. La positività del saper essere con se stessi è un significato che non è condiviso, ma è tralasciato.

Vi è un forte condizionamento sociale a considerare la solitudine, lo stare soli con se stessi, in senso negativo. La lingua inglese fornisce un’interessante interpretazione linguistica, dando al termine solitudine una doppia connotazione: loneliness indica la solitudine come il sentimento di sentirsi soli; aloness implica ESSERE da soli, la capacità di stare “senza”.

1 COMMENT

  1. Consapevolezza
    Credo, basandomi più che altro su esperienze personali, che raggiungere la consapevolezza di sè, il saper stare soli con se stessi sia un traguardo che implica un grande coraggio ma soprattutto umiltà. Grande coraggio perche nel viaggio che si intraprende possono saltare fuori di se stessi cose che possono dare fastidio. Umiltà perchè bisogna essere disposti a imparare.

    (Roberto Zappaterra)