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Waller Corsi, promessa artistica della montagna, ottiene grande successo in città con BENT

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Waller Corsi e Giovanni Ferrari in "BENT"

L'attore Waller Corsi, originario di Cervarezza (Busana), ha portato in scena BENT, un testo impegnativo presentato a Spazio Factory lo scorso week end a Reggio Emilia proposto da Etoile - Centro Teatrale Europeo per la regia di Daniele Franci.

BENT è ispirato a un’opera teatrale di Martin Sherman, da cui è stato fatto anche un film. Bent, dall’inglese “piegato”, è anche un termine dispregiativo per definire gli omosessuali.

A Berlino nel 1934, Max (Waller Corsi) frequenta i locali alternativi della capitale del Reich e convive con Rudy (Luca Luppi), un ballerino. Le persecuzioni naziste colpiscono anche gli omosessuali. Max comincia una fuga tragica insieme a Rudy, presto ucciso, e viene deportato a Dachau.

Qui Max, grazie a uno stratagemma, riesce a guadagnare la stella gialla degli Ebrei, e incontra Horst (Giovanni Ferrari) marchiato invece col triangolo rosa degli omosessuali.

Insieme cercano di sopravvivere nel campo di concentramento. Inizia una struggente e sconvolgente storia d’amore, segretamente sussurrata tra i due, mentre costretti a lavori atroci e inutili, atti a farli impazzire.

L’opera procede nella narrazione accompagnando chi guarda come in una serie di scatole cinesi. Una regia volutamente “un passo indietro”, per permettere alle emozioni di emergere, in un prisma riflettente il dialogo col pubblico, dove la presenza registica si dissolve, diventando un tutt’uno con la storia. Un Daniele Franci rispettoso e impalpabile, generoso con gli attori, cui lascia la libertà di ricercare e costruire insieme i significati che emergono di volta in volta.

BENT non è uno spettacolo definito e finito, ma si presta a processi di volta in volta più elaborati, quasi come se la solennità delle tematiche fosse una sorta di rito sacro, rappresentato ogni volta con sfumature nuove. Registicamente tutta l’opera è donata con delicatezza al pubblico, attraverso una rappresentazione drammatica né didascalica né volgare.  Su uno scenario macabro e agghiacciante che è quello del lager, due anime si raccontano, denudandosi, e sviscerando il tema dell’amore omosessuale. Dentro vi troviamo un altro tema ancora: quello della difficoltà del lasciarsi amare, della paura di un sentimento puro, dell’alessitimia, la mancanza di un alfabeto emotivo per attribuire un nome alle emozioni sentite e allo stesso tempo negate.

In un’ora e mezzo lo spettatore si sente attraversare da interrogativi che lo inchiodano alla scena come di fronte a verità universali da cui non può fuggire, colpendolo come un pugno allo stomaco.

Varie cornici si susseguono svelando, agli occhi di chi guarda, drammi dentro ad altri drammi come in un caleidoscopio emozionale: la crudeltà dello sterminio fa da sfondo a un amore che già di per sé sarebbe dannato per i pregiudizi sull’omosessualità.

E dentro questo legame maledetto, la paura di sentirsi amati in modo totale e assoluto, che spaventa ancora di più della morte stessa.

I due amanti riescono a vivere tutto questo, eludendo gli occhi spietati delle SS. Essi arrivano a fare l’amore soltanto con le parole, con il respiro e la voce, coinvolgendo il pubblico in un amplesso vocale che colpisce per l’autenticità insieme cruda e poetica, struggente, lacerante come solo qualcosa di assoluto può essere.

La vera oscenità non diventa però l’amore omosessuale. Anzi di questo ci si dimentica presto: i due protagonisti diventano semplicemente due anime che si incontrano, si donano in condizioni disperate l’una all’altra.

Oscena diviene la forza dell’amore, sublime, terrificante per la sua profondità, che lascia senza respiro. Alla violenza del campo di sterminio si aggiunge la violenza respingente con cui si risponde a volte alla persona amata, nel tentativo di impedirle di amarci, perché il suo amore devoto e totale ci spaventa e ci mette in contatto con la paura atavica di essere inghiottiti, annullati.

Quasi se permettere a un altro di vederci davvero per quello che siamo, terrorizzi più del morire.

Ben presto la crudeltà cieca e inutile dell’olocausto si abbatterà su entrambi. Portando tuttavia una profonda trasformazione in Max che smette la maschera che si era imposta, nascondendo al mondo e a se stesso la sua essenza, e svela soltanto in ultimo il suo vero Sé, regalando un attimo finale di pura ed estrema verità, un gesto di amore sublime e disperato.

BENT trascina il pubblico dentro a un viaggio di non ritorno.

Nulla, dopo essere stati introiettati dentro questo spettacolo, potrà essere come prima. Una consapevolezza inevitabile rimane incollata addosso allo spettatore, il quale, dopo un commosso e intenso applauso, resta seduto, attonito, a riflettere. Coinvolto nel processo di trasformazione che questo spettacolo innesca.

Ottimi gli accorgimenti scenici, costruiti su più ambientazioni e allestimenti, e che guidano il pubblico dritto nel cuore della vicenda. Pochi e minimali oggetti di scena rendono la desolazione dell’ambientazione.

Waller Corsi cattura il pubblico con la sua metamorfosi, dando spessore e intensità al personaggio dilaniato tra lo sforzo di resistere alle proprie paure e verità, e l’abbandonarsi alla fragilità della sua condizione esistenziale. “E’ stato un processo difficile, cui mi sono arreso. Ho messo a nudo le mie difficoltà. La cosa che più mi ha toccato dentro in questo “viaggio” non è tanto il prodotto finale, ma il sentire che ognuno di noi si trasformava. Le pietre che trasportiamo in scena sono le pietre che ognuno di noi ha dentro e ha avuto il coraggio, grazie a BENT, di mostrare.”

Strabiliante e convincente Giovanni Ferrari che resta autentico e credibile fino alla fine, disarmante e innocente. Come pure il giovane Luca Luppi, vittima di una furia ingiusta e incomprensibile. Duro e difficile il compito delle SS. Dar voce a quella parte oscura e gelida che alberga latente negli esseri umani e che si manifesta nell’esecuzione della parte finale e scenica del massacro. Infine il contrasto struggente del violoncello, suonato da Giovanni Ricciardi. Delicato, lirico e intenso, come a porre l’accento sul ritmo incalzante, lieve e drammatico allo stesso tempo, tragicamente inesorabile dell’esistenza stessa.

Daniele Franci: “Non è la prima volta che tratto nei miei spettacoli temi legati all’olocausto o all’omosessualità. BENT certamente è stato lo spettacolo che più mi ha coinvolto in un percorso che andava oltre la produzione teatrale. La cosa che più ho gradito è vedere la reazione del pubblico, e comprendere da chi ha assistito allo spettacolo la potenzialità di quanto abbiamo presentato. BENT può davvero essere un veicolo per dire qualcosa alla gente, qualcosa di vero.”

 

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