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“Il primo a uscire dalla chiesa quando la messa sta per finire è il prete”

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Il primo ad uscire dalla chiesa quando la messa sta per finire (neanche ve lo immaginate!) è proprio il prete. O il pastore anglicano. Qui, da noi, c’è sempre questa usanza. Il popolo sta ancora cantando il canto finale e lui, con passo svelto, raggiunge la porta d’entrata. Lo incrociate, poi, sorridente, uscendo, scambiando un augurio, una parola o un appuntamento. In Francia, veramente, trovavo la stessa cosa, lo stesso stile... Anzi a volte il celebrante usciva perfino sul sagrato, restandovi lungamente con tutti i paramenti sacri addosso. Il rifugiarsi in  sacristia è, forse, solo un’abitudine nostrana.

“Lo trovo straordinario!”, mi fa Alfreda, che da turista sorpresa mi racconta le sue impressioni. Al posto di rinchiudersi “nella casella di partenza”, qui all’estero (Londra, ndr) questo appare come un modo semplice, popolare e domenicale di incontrare la gente. Cioè, il proprio gregge, le proprie pecore, a una a una. Occasione preziosa, d’altronde, per trasmettere un augurio a una famiglia, una carezza a un neonato, un saluto o un messaggio. Insomma, un “contatto domenicale” come era abituato il Cristo “toccando” le persone. Questo contatto è qualcosa di particolarmente apprezzato. ”Perchè non provare anche da noi, in Italia? Lo dirò al mio parroco, alla mia parrocchia!”, si propone con coraggio Alfreda, pensando alla sua comunità di Chioggia.

Forse, questo contatto con la gente - un gesto simbolico che nel suo piccolo indica segretamente una dimensione più ampia - rivela qualcos’altro. E lo si vede quando arriva un nuovo responsabile in parrocchia, un nuovo pastore. È attento a conoscere il mondo in cui arriva, la gente che lo accoglierà: osserva il tipo e la qualità di lavoro della popolazione, la problematica dei giovani, l’economia locale, le chances, le possibilità e le sfide del territorio... oltre a tutti i servizi religiosi, naturalmente. Insomma, desidera capire il nuovo ambiente, il nuovo terreno, dove poter seminare la parola buona del Vangelo. È un mettersi, così, a servizio di tutti, anche dei lontani. In questo modo, sembra di aver ricevuto la missione non tanto di servire la Chiesa. Ma, nella Chiesa di servire il mondo. Grandioso, universale spirito di servizio, che ricorda così da vicino la missione stessa del Cristo.

“Sfide? Non ne abbiamo!”, mi fa un amico prete in una parrocchia italiana. Rivelandomi con questo che, forse, è il solito tran-tran che conduce le cose, il ritmo abituale di sempre che accompagna il passo del suo gregge. “Si fa come si è sempre fatto”, specifica. Una sfida, invece, sarebbe qualcosa di nuovo, di difficile e di importante da affrontare, la si intravede, richiama tutte le proprie energie e insieme la compattezza della propria comunità. Una sfida fa crescere il senso del domani e il senso del noi. E proietta nell’avvenire che sta per nascere tutte le nostre forze. Sa creare il miracolo della comunione.

“Maccome?! Gli faccio. E la mancanza di lavoro dei giovani? Non potrebbe essere utile una motivata e giovane segretaria in parrocchia?”. E gli racconto come nella mia precedente parrocchia all’estero, pur poverissima, si era proprio pensato a questo posto di lavoro. Anzi lo si era previsto per tempo, inviandola prima a un corso diocesano di formazione per segreteria parrocchiale. Accogliere la gente, rispondere, informare, sistemare la contabilità, i registri, preparare i dossier... un sacco di compiti da vivere con motivazione e dinamismo giovanile. La gente apprezzava moltissimo tutto questo, insieme a quel suo sorriso al telefono o alla porta. Già di primo acchito suggeriva attenzione all’altro, disponibilità e tatto. Ma ben presto anche l’efficacia di tutta la nostra azione pastorale guadagnava di qualità e quantità... Ed è stata la prima cosa da fare nella parrocchia attuale.

Lo guardo. Mi sorride, indecifrabile. Forse sto parlando di un altro mondo.

(Renato Zilio, missionario a Londra - Autore di “Dio attende alla frontiera”, Emi, 2012, prefazione dell’Abate di Montecassino)