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Il PD della montagna su province e futura Unione dei comuni. AGGIORNAMENTO: intervento del sindaco di Carpineti

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Durante la Festa PD a Felina si è discusso del tema con la Presidente della Provincia e con i consiglieri regionali, ora il PD montano prende formalmente posizione col documento che trascriviamo di seguito.

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Nella discussione sul superamento e riordino dell’attuale geografia delle Province in Italia ed in particolare delle province emiliane occorre, a nostro parere, tener conto di alcuni aspetti che non abbiamo visto sinora esposti considerando anche le ripercussioni sulle funzioni e dimensioni delle future unioni tra comuni.

Primo argomento

Se è vero che l’istituto della provincia nasce durante il Regno d’Italia, poco prima dell’unificazione nazionale, sul modello dello Stato Francese, anche in continuità con la parentesi napoleonica iniziato con Repubblica Cispadana, la storia e il significato di questi territori ha origini molto più lontane.

Basta sfogliare il primo tomo della poderosa opera "Storia della Diocesi di Reggio Emilia – Guastalla" (Ed. Morcelliana, BS, 2012) per vedere che il territorio della diocesi nel III sec. corrispondeva, in buona sostanza, a quella della attuale Provincia. Questo per dire che il "senso" di questo limite geografico ha un significato molto più profondo e stratificato, per le relazioni sociali, di quello che si percepisce oggi. Relazioni sociali e politiche che si sono costruite ed evolute in oltre un millennio con un centro urbano ben preciso. Non lo diciamo per la difesa campanilistica di una "piccola patria", ma per sottolineare come questo ambito sia da interpretare come un struttura territoriale duratura, dotata di "senso". Un vero e proprio atto di territorializzazione che implica un controllo simbolico, pratico della complessità sociale e spaziale (cfr. Angelo Turco 1988).

Ignorare tutto questo in virtù di un parametro di superficie (il Governo ha fissato come minimi 2.500 kmq e RE ha circa 2.290 kmq) è davvero una operazione sciocca e forse controproducente rispetto all’obiettivo ultimo di ridurre la spesa pubblica.

Crediamo che se si facesse un sondaggio su quali sono gli enti e le istituzioni cui richiamare la propria appartenenza territoriale la Provincia sarebbe certamente tra i primi posti. Invitiamo gli amministratori di investire pochi quattrini e dotarsi anche di questi strumenti di conoscenza prima di decidere.

Secondo argomento

Le province in Italia hanno funzionato bene soprattutto al nord ed in particolare in Emilia - Romagna e in Lombardia perché in queste regioni il decentramento e la sussidiarietà sono state applicate concretamente.

Il fatto che altrove questo ente costituzionale abbia funzionato meno o per nulla non implica che sia da abolire (infatti nemmeno le drastiche manovre del governo Monti lo fanno). Il metodo della "spending rewiew" sarebbe infatti proprio quello di applicare a tutta "l’azienda" o al Paese i parametri e i metodi di lavoro delle parti che funzionano meglio, ovvero che hanno rapporti spesa/servizi migliori. Quindi le provincie emiliano – romagnole più che soppresse o accorpate potrebbero essere da esempio per tutta l’Italia.

Terzo argomento

Se consideriamo le province con cui Reggio dovrà unificarsi, cercando di non perdere il "nome", ossia Modena, più probabilmente, o Parma, possiamo rapidamente verificare che le due vicine "salve", perché con superficie superiore a 2.500 kmq e pop. oltre i 350 mila, non sono certo superiori alla più "piccola" Reggio Emilia se si considera l’ottimizzazione e razionalizzazione della spesa pubblica.

Un esempio facilissimo, i posti letto per mille abitanti; Reggio Emilia è già allineata con il parametro fissato dal Governo con il provvedimento di revisione della spesa (3,7 posti letto ospedalieri ogni 1.000 abitanti), Parma è attualmente a 4,2 posti letto e Modena a 4,7.

Un esempio di come un obiettivo di razionalizzazione della spesa attraverso ambiti sopra provinciali stia portando a risultati di tipo opposto è quello della recente Legge regionale di riforma delle aree protette.

Il caso riguarda sempre Modena e Reggio rispetto alla gestione dei parchi e delle riserve regionali, dei siti rete natura 2000 e dei paesaggi protetti. L’Emilia Romagna, obbligata allo scioglimento dei consorzi per la gestione dei parchi ha, in pratica, anticipato l’unificazione delle provincie, affidando a questi enti chiamati "Macroaree" la gestione degli istituti di conservazione della natura prima citati. Una legge farraginosa che ha creato un mostriciattolo giuridico.

Reggio Emilia si è ritrovata abbinata con Modena. Le due Provincie, al netto del Parco Nazionale dell’Appennino tosco – emiliano, nato dall’ex parco regionale dell’alto Appennino Reggiano che non è coinvolto direttamente nella riforma, hanno una superficie protetta analoga e una gestione simile. Modena però porterà al nuovo ente tre sedi (quelle dei due parchi regionali e della riserva del Secchia), almeno una dozzina di dipendenti e ovviamente intende esprimere presidente e direttore in virtù del fatto che tutta la "governance" si basa solo sugli ex parchi regionali.

Reggio è sempre stata più all’avanguardia nella tutela e valorizzazione della natura e del paesaggio, riuscendo a far partire un parco nazionale e tutelando molta superficie, se si avvera la volontà dei modenesi, si ritroverà a pagare personale inservibile per la gestione del suo territorio e ad essere inclusa in un ente in cui avrà debolissima rappresentanza politica.

Più che un esempio di integrazione ci sembra un esempio di prevaricazione, su un tema poi un cui Modena è oggettivamente in ritardo rispetto a Reggio.

In tutto questo gli obiettivi di razionalizzazione della spesa saranno impossibili da raggiungere.

Per quanto riguarda le economie e le aziende tra Parma, Reggio e Modena, l’integrazione è in atto e indipendente dalla P.A. ; non crediamo che il riordino delle provincie porterà qualche accelerazione o ritardo.

E’ invece la gestione dei servizi e del territorio che presenta sfumature tra le tre realtà, dove, ad esempio, a Reggio si è tradizionalmente preferito conservare un’azienda agricola rinunciando semmai ad un capannone, ad una rotonda o ad una tangenziale rispetto alle provincie (pur simili) vicine. E si sa come Dio o il diavolo stiano nei dettagli (G. Flaubert)

Una riflessione

La proposta di Sonia Masini di una grande provincia emiliana parte da ragioni comprensibili di dare una "forma" ad un territorio che, dall’esterno, è già percepito come tale e che magari lo è anche nella componente urbana - infrastrutturale ed economica. E’ pure condivisibile come idea di "marchio territoriale" che sarebbe certamente forte. Ma in tutto questo vediamo alcuni limiti: la storia millenaria di questi territori, simili, quasi uguali, in rete ma anche in competizione: la geografia delle provincie è presente in tutte le fasi storiche dai romani in poi; il fatto che riguardi soprattutto l’asse della via Emilia e i centri di questi territori e molto meno le periferie; il fatto che potrebbe essere controproducente rispetto all’unico obiettivo concreto che ha: la riduzione / razionalizzazione della spesa pubblica.

Una proposta

Crediamo che il Consiglio Regionale e le varie sedi di discussione sul riordino delle Province debbano considerare prima di tutto le funzioni che le nuove Province dovranno avere e, a partire da lì, pensare nuove geografie cercando di essere concreti più possibile.

Certo il valore del "senso" (cfr Luhmann 1973) è fondamentale per il successo di nuove geografie, soprattutto perché dovrà sostituire sistemi territoriali, con un "senso" assai forte.

Bisogna anche considerare il valore che ha la "rappresentanza" politica diretta o indiretta, non solo come fattore democratico astratto ma come fattore di efficienza del "controllo popolare" sull’agire pubblico e traid de union tra politica e società e, alla fine, fattore di forza e competitività del sistema locale e nazionale.

Un’ultima riflessione per il contesto della montagna reggiana: qualunque sia l’esito della discussione delle Province, quel che si prospetta è la nascita di un Ente intermedio molto più grande, che potrà includere almeno 1 o 2 milioni di abitanti.

Molto probabilmente la gestione di funzioni in precedenza affidate alle Province saranno affidate alle Unioni di Comuni. Funzioni inedite per i Comuni e tecnicamente complesse, inaffrontabili per Comuni con poche migliaia di abitanti (agricoltura, difesa del suolo, caccia e pesca, edilizia scolastica, servizi alle persone ecc.).

Tutto questo sta succedendo e la migliore possibilità di non essere ulteriormente marginalizzati come comprensorio è quello di costituire nell’Appennino reggiano una nuova e una sola grande unione corrispondente al distretto sanitario e scolastico o anche oltre, che sia capace di ottimizzare davvero le risorse umane che ci sono, l’allocazione delle risorse senza la frantumazione che ancora viviamo in tante micro-sedi decisionali ancora troppo separate e alla fine auto-referenti.

Lo impone la restrizione delle risorse pubbliche di derivazione statale sul territorio. Bisogna usarle in modo più concentrato, concertato e selezionato.

La proposta di una nuova grande unione, che il PD ha il dovere di avanzare, va discussa in modo aperto tra tutti i partiti e con tutte le rappresentanze sociali e la cittadinanza.

C’è nell’idea della nuova grande unione anche l’andare incontro a un sentimento di comunità d’Appennino che non separa le sue varie parti. C’è inoltre in questa proposta, nel momento in cui viene avanzata da parte di un partito, non solo l’indicazione di un perimetro, di uno statuto o delle funzioni di un nuovo ente per il prossimo futuro, ma anche una forte indicazione su come ci dovrebbe, anzi, si deve operare nel presente, tra tutti glie enti e le rappresentanze pubbliche che hanno voce in capitolo in Appennino.

È facile per tutti fare l’elenco di ciò che manca e di ciò che non funziona. Ed è anche facile in questo clima politico cercare gloria proponendo sempre e soltanto dei "tagli", ma non è tagliando o sciogliendo che si realizza una coesione superiore quale necessita. È ormai da tempo acquisita la necessità di superare la vecchia Comunità Montana; gli appelli su questo punto ancorchè numerosi e provenienti da diverse parti sfondano una porta aperta. Ma non sono adeguati rispetto l’operazione più importante ed ormai urgente che è quello di costruire una nuova aggregazione unitaria in Appennino di superare barriere oggettive e sordità soggettive che non permettono all’agire pubblico di dare il meglio di sé stesso ed il massimo dei servizi ai cittadini.

In un tempo di delusione e di frustrazione è a nostro avviso ancor più importante, anzi diventa prezioso, un impegno di costruire aggregazioni unitarie, accettando tutti, di mettere in discussione gli approdi e le acquisizioni da raggiungere.

(Per il Coordinamento PD zona montana Valerio Fioravanti, Simone Alberti, Rosanna Bacci, Corrado Ferri, Felicino Magnani, Simone Ruffini, Luca Zini, Uriele Nizzi)

11 COMMENTS

  1. Il Partito democratico è un partito aperto, libero, e tutte le opinioni sono egualmente legittime e rispettabili. Ma leggendo l’intervento del segretario della zona montana del Pd – sottoscritto da alcuni circoli – sul futuro amministrativo del nostro territorio, con la proposta di una sola grande Unione dei comuni, devo proprio ammettere che la mia opinione è molto diversa. E non solo la mia, ma – mi viene da pensare – anche quella di altri circoli Pd e di altre amministrazioni comunali della montagna, sempre rette dal Pd, che hanno un’opinione parecchio differente.
    I segretari che hanno sottoscritto il documento partono dal futuro delle province, ed in particolare della nostra, per parlare poi dell’assetto della zona montana, ipotizzando una nuova grande Unione di Comuni come la soluzione.
    Personalmente avrei gradito maggiormente che una proposta simile venisse discussa all’interno del Pd, prima, e non diffusa alla stampa, anche perché rappresenta l’opinione di una parte del Pd appenninico, e non tutto il partito. Ma visto che si è scelta questa strada, anche io mi rivolgerò all’esterno.
    Veniamo alla questione in sé. A mio parere, una grande Unione dei comuni che riunisca tutti i comuni montani non è una buona soluzione, anzi. La mia esperienza come amministratrice mi ha convinto sempre più che una vera, e funzionale, Unione può funzionare solo partendo dall’accorpamento di servizi e funzioni. E un accorpamento di servizi e funzioni diventa valido solo fra pochi comuni, in modo che questi servizi possano davvero essere efficaci nel servire il territorio. Una unica grande Unione porterebbe per forza di cose ad una dispersione e a un peggioramento dei servizi.
    Sono anche io convinta che sia necessaria un’unità della zona montana, ma questa deve essere a livello politico e amministrativo. A livello gestionale una unica Unione non è funzionale. A livello politico, invece, è necessario procedere tutti insieme, ma questo dipende prima di tutto dalla buona volontà e dalla voglia di lavorare assieme di noi amministratori. Un conto è la gestione dei servizi, un altro il cammino politico-ammministrativo comune della montagna, che non dipende dalla presenza di un’unica Unione di comuni, ma appunto dalla voglia di procedere insieme.
    La situazione amministrativa è complessa e ancora incerta, dobbiamo ancora conoscere quale sarà il futuro della Provincia di Reggio Emilia; senza questa certezza diventa difficile muoversi a pieno ritmo. Gli stessi segretari affermano che è “ormai da tempo acquisita la necessità di superare la vecchia Comunità montana”. Sono assolutamente d’accordo, ma non credo che la soluzione sia una grande Unione che alla fine replicherebbe proprio la Comunità montana. Non garantendo comunque – come per altro già oggi – una completa aggregazione ed una vera unità di intenti.
    A proposito di incertezze, siamo ancora in attesa delle disposizioni ufficiali della Regione sulle future Unioni dei comuni. L’ipotesi è che le unioni debbano coinvolgere comuni dello stesso distretto sanitario e che nello stesso distretto non possano esservi più di due unioni. Se questa impostazione diventerà operativa, credo che la soluzione delle due Unioni ristrette sia decisamente la migliore per la nostra montagna, la più funzionale e quella in grado di garantire servizi migliori per gli abitanti ed il territorio.

    (Nilde Montemerli, sindaco di Carpineti, iscritta al Pd)

  2. Le province in quanto unità politico-amministrative andrebbero soppresse tutte. Negli anni – soprattutto gli ultimi decenni – hanno perduto la loro importante funzione amministrativa esercitata da secoli che ha dato ad un territorio una forte identità e che spesso non ha paragone altrove. La loro recente “involuzione” in centro di mero potere, di moltiplicazione di sottogoverno e poco più dovrebbe portare ad un azzeramento totale e far seriamente ripensare ad una architettura istituzionale completamente diversa che recuperi gli elementi positivi che comunque ci sono e vanno riconosciuti, ma sia evitato il risorgere di un centro di potere sotto spoglie diverse. E’ ovvio che la gestione di servizi su scala più grande su territori omogenei va prevista come una volontaria unione di comuni, rivolta ad una futura unificazione – accorpamento degli stessi.
    Il PD dovrebbe dire in modo chiaro che se vince le elezioni le province tutte le abolisce con la debita modifica costituzionale, non ci sarà nessun referendum confermativo o meno che le farà risorgere… Con l’aria che tira ci vuol poco a indovinare come la pensano gli italiani.
    Riproporre la vecchia Comunità montana come ambito dell’unione dei comuni mi sembra proprio improponibile, già poco apprezzata e amata negli ultimi travagliati decenni di vita non si vede come e per quale ragione si riuscirebbe a tener assieme anime ed interessi così diversi.

    (G. Mariastella)

  3. Cara Nilde, credo che riteniamo entrambi che il PD sia una cosa da prendere sul serio e quindi, alle tue considerazioni sulle opinioni nel Partito, vorrei ricordati che sull’argomento del riordino dell’ente/enti montani, in sede di coordinamento di zona, sono state svolte almeno una decina di riunioni, di cui una con il responsabile regionale PD-ER gruppo montagna Giorgio Sagrini. Il documento che è stato elaborato tra gennaio ed aprile 2012 è stato approvato all’unanimità, più volte trasmesso non solo ai segretari ma anche a tutto il direttivo di zona (ovvero i sindaci, capigruppo e presidenti) riporta, al primo punto delle conclusioni ciò che segue: “Avere come prospettiva da realizzarsi in un arco temporale più lungo, quindi oltre l’attuale mandato amministrativo, la creazione di una unica unione corrispondente all’ex comunità montana.”
    Il documento è stato illustrato e discusso a Reggio Emilia, in sede di partito, con i sindaci iscritti al PD, il segretario, il responsabile enti locali, Sagrini e la V.P. Saliera. Quel che stupisce è invece come possa stupire un’idea che mi sembra anche assai ovvia per un “coordinamento della zona montana”, anzi sarebbe più stupefacente il contrario, ossia che la zona indicasse una prospettiva di frammentazione anziché di unitarietà. Se così fosse potremmo sciogliere la zona montana domani, anzi, visto che l’unitarietà del territorio dipende, ti cito “…prima di tutto dalla buona volontà e dalla voglia di lavorare assieme di noi amministratori” sciogliamo anche il Partito, durante tutto il mandato amministrativo, poi lo riesumiamo nel breve periodo in cui si dovrà decidere del candidato sindaco (sempre che abbia già espletato due mandati, sennò nulla). Io non credo che la sommatoria dell’attività dei sindaci possa creare una unitarietà. Lo dimostrano i fatti recenti, negli ultimi 10 anni non è stata compita nessuna scelta strategica per la montagna, fosse anche lo scioglimento della Comunità montana che ritenete una esigenza per il rinnovamento. Questo lo credo non perché vi ritengo poco capaci ma perché ogni sindaco o amministratore comunale ha un mandato e quindi una visione che prima di tutto guarda il suo territorio e i suoi elettori.
    Credo che il partito possa andare un poco oltre, gettare un poco il cuore oltre l’ostacolo (e il pragmatismo dell’amministratore), come ha fatto questa volta. Ciò deve essere considerato una ricchezza anziché una fuga pericolosa da reprimere.
     
    (Luca Zini, segretario PD Casina)

  4. Credo che in tanti attualmente pensino che la razionalizzazione della spesa pubblica non debba passare per la riduzione dei posti letto ma delle poltrone. Abbiamo troppi politici a tutti i livelli e per mettersi d’accordo per decidere qualcosa devono fare incontri su incontri, riunioni su riunioni, commissioni su commissioni, fiumi di parole (col beneplacito dei Jalisse) e alla fine… fiumi di denaro pubblico speso in tanto fumo e poco arrosto. Ogni politico pensa al bene pubblico (a suo dire) ma troppo spesso anche al bene privato: salvarsi la poltroncina per mantenere benefici, prestigio e posticino fra quelli che “contano” nella Cosa Pubblica. E intanto se ne volano gettoni di presenza, indennità di missione, rimborsi spese, pensioni che si cumulano (alla faccia degli altri lavoratori che “devono” salvare i conti dell’INPS). Aggiungiamo poi rinfreschi, conferenze, rappresentanze, inaugurazioni, celebrazioni (eventualmente spostandosi con autista e auto blu). Spese su spese per autocelebrarsi o darsi lustro.
    Quando a dover prendere decisioni politiche ci sono troppe teste le decisioni si dilatano (quasi sempre), si inquinano (spesso), si dileguano (a volte).
    Occorrerebbero meno politici ma personale tecnico sufficiente e adeguato a svolgere le funzioni amministrative nel miglior modo.
    Il “senso” di un limite geografico deve cambiare nel tempo, non dal punto di vista delle relazioni sociali ma dal punto di vista amministrativo in base a criteri di efficienza ed efficacia. Queste non possono essere chieste solo ai settori della Pubblica Amministrazione dove lavorano concretamente tanti lavoratori utili alla società (sanità, scuola, tribunali, forze dell’ordine …). Vanno chieste anche ai livelli superiori e alla politica. Quando nel III secolo c’era la Diocesi di Reggio Emilia e Guastalla ci si spostava a cavallo e per prendere accordi era necessario spostarsi per vedersi di persona. Era ovvio dover avere centri gestionali e amministrativi piccoli. Nell’epoca di Internet e della globalizzazione forse i “limiti” geo-politici possono essere rivisti.
    Il problema è che a dover rivedere l’organizzazione politica sono i politici i quali dovrebbero tagliare se stessi.
    Non è più opportuna la Comunità montana ma si auspica “la creazione di una unica unione corrispondente all’ex comunità montana”. Da incompetente mi pongo una domanda: che senso ha avere un’Unione di comuni mantenendo però tanti sindaci, assessori e consiglieri? Che senso ha avere in ogni comune ad esempio l’assessore alla scuola se a causa della razionalizzazione c’è una sola Istituzione scolastica che serve 5 comuni? Se l’Istituzione scolastica ha potuto essere “razionalizzata”, gli ospedali pure, perché non possono esserlo anche i comuni, le province, le regioni e il Parlamento e tutti i dirigenti politici sistemati qui e là per spartirsi il “controllo simbolico, pratico della complessità sociale e spaziale”?
    Che sia perché questa razionalizzazione toccherebbe i politici che dovrebbero razionalizzare loro stessi?
    Intanto però per il bene del nostro Paese i politici ne parlano, si riuniscono, fanno commissioni, colazioni-pranzi-cene di lavoro, seminari, conferenze, tavole rotonde-ovali-quadrate, comunicati stampa (il tutto con soldi pubblici) per … non cambiare niente!

    (Anna Maria Gualandri)

  5. Leggendo l’intervento della Nilde e i successivi mi stimolano a esprimere da esterno il mio pensiero.
    Io non so dove sta la ragione, su che tipo di Unione serva per la montagna, penso pero’ che la Responsabiltà di un gruppo dirigente deve portare in tempi rapidi ad una decisione, non possiamo ormai più permetterci spese inutili, la montagna ha bisogno di amministratori che con un forte gioco di squadra e sinergico (cosa che a mio parere oggi non avviene e l’ente di secondo grado non è in grado di garantirlo) provano a disegnare un futuro meno incerto per i cittadini che hanno deciso di rimanere qui.
    Quindi meno riunioni a porte chiuse ma aprite il confronto con la “società civile” con il sistema imprenditoriale,le associazioni i categoria ecc…
    Abbiamo tantissimi problemi da affrontare in un momento difficile come questo, a partire dal problema dei giovani, il lavoro, lo sviluppo del turismo, la scuola. Questi problemi si affrontano con una forte coesione “vera” non di circostanza, chiamando in causa gli altri livelli istituzionali, in primis la Regione.
    Non continuate, proprio per la RESPONSBILITA’ che avete, a dare un’immagine di divisione e contrapposizione, che fa rimpiangere un sano “centralismo democratico” che ha avuto il merito, in anni difficili simili a questi che stiamo attraversando, di far comunque crescere la nostra montagna. Scusate la franchezza ma mi sentivo di esprimere il mio pensiero da cittadino ed elettore di questa “bella montagna”.
    Grazie a presto.

    (Enrico Bini)

  6. Egregio Presidente della Camera di commercio, anche Lei qui a pontificare sul nulla, ci ha detto infatti che quelli – i dirigenti – del PD non debbono litigare e debbono decidere alla svelta, e magari tornare ai tempi del PCI-centralismo democratico. A mio modesto parere Lei presiede un ente inutile, “sanguisuga” degli imprenditori e dei cittadini che elargisce un po’ di contributi utili alla perpetua spartizione tra i soliti noti delle poche spoglie che rimangono. Qualche barboso convegno che mai approda a qualcosa di utile, diverse missioni all’estero di cui mai sappiamo a che cosa siano servite concretamente. Ebbene credo che ci sia molto da riflettere sull’utilità dell’ente camera di commercio alla stessa stregua delle province.
    Quantomeno se si accorpano le province,dovrebbero accorpare anche gli enti come il Suo.

    (Maristella G.)

    • Gentilissima Signora Maristella,
      concordo con Lei che ci siano troppi enti inutili. Lo spreco in Italia è divenuto la quotidianità. Dobbiamo però pensare alle centinaia di lavoratori che occupano posti di lavoro. Eliminiamo le “seggiole”, eliminando gli sprechi, su questo sono daccordo, e cerchiamo invece di dare maggiori servizi ai cittadini. La situazione che si è creata è paradossale: ELIMINAZIONE di enti pubblici significa minor servizio per il cittadino. Non crede che i soldi risparmiati potrebbero essere investiti in SERVIZI AL CITTADINO? io credo sia la scelta migliore.
      Cordiali saluti
      (Camilla)

    • Gentile sig.ra Maristella G.,
      quanto livore anti-tutto verso enti e istituzioni… A quanto mi risulta la Camera di Commercio unisce industriali, artigiani, commercianti e agricoltori, tutti gli operatori economici del territorio. C’è una giunta che valuta e decide, ci sono norme, uno statuto, etc. Magari le sarà capitato di doversi informare su un’azienda e fare una visura camerale… Meglio assumere un investigatore privato?
      A suo avviso si tratta di “un ente inutile”, ma ci può fornire i dati e i fatti in base a cui dichiara che la Camera di Commercio di Reggio Emilia è “una “sanguisuga” degli imprenditori e dei cittadini”? Può segnalare i casi di “contributi utili alla perpetua spartizione tra i soliti noti delle poche spoglie che rimangono”? etc.
      Dati e fatti, per cortesia. Così possiamo valutare anche noi, evitare l’impressione di qualunquismo, dare la possibilità agli interessati di difendersi e giustificarsi.

      (Stefano C.)

  7. Riformare l’Italia, semplificare senza banalizzare. La Politica promuova la partecipazione della gente
    a rinnovare il sistema-Paese e a renderlo più competitivo.
    Com’era prevedibile la Spending review sta mettendo a dura prova Enti locali e Governo, entrambi chiamati a rispondere a un paio di domandine “semplici semplici”: come far quadrare i bilanci in una fase economico-finanziaria drammatica; come mantenere a un livello dignitoso i servizi essenziali per cittadini. Anche se il quesito più impegnativo rimane come cavolo fare per promuovere un po’ di crescita in un periodo in cui dovremo tirar la cinghia per quanto tempo ancora non è dato sapere.
    L’urgente bisogno di arginare la voragine del debito pubblico che rischia di inghiottire anche le aree più produttive del Paese non può essere rinviato. Il “Pozzo di San Patrizio” dove per decenni Governi, Regioni ed Enti locali hanno attinto a piene mani va rimpinguato urgentemente, tagliando costi e sprechi inutili, mettendoci dentro i soldi dei cittadini che continuano a trattare il Fisco a suon di pernacchie. Lo chiedono i mercati finanziari, il principio di equità delle risorse intergenerazionali e, a gran voce, un senso di responsabilità che vieta di voltare le spalle a una situazione grave. Anzi, gravissima.
    Vero che quando si è alle prese con l’emergenza si pensa soprattutto a soluzioni immediate, al breve periodo, al day by day. Difficile elaborare strategie d’azione di lungo respiro, ma questo è divenuto il vero imperativo. Evitare il baratro e progettare il futuro è il doppio binario sul quale chi governa ad ogni livello deve credibilmente instradare il Paese.
    Merita dunque di essere seguita con interesse la discussione che anima in queste settimane i corridoi di “Palazzo Allende” et similia. Non tanto per sapere delle sorti di noi reggiani, se finiremo per chiamarci reggio-modenesi o reggio-parmensi oppure parmigiano-reggiano-piacentin-modenesi (o semplicemente “emiliani”, con buona pace di ferraresi e limitrofi), quanto invece per comprendere se il rinominato Decreto del Governo Monti sul “riordino” delle Province darà concretamente il via a un percorso serio e coerente sulla strada delle riforme istituzionali. Un cammino tutto in salita, impegnativo fin che si vuole, ma che i tempi richiedono di percorrere bene e in fretta, per ridefinire competenze e territori amministrativi in sintonia con i bisogni della gente e del mondo della produzione. La speranza è che agli albori della ripresa (che prima o poi dovrà pure arrivare anche qui…!) l’Italia possa presentarsi ai blocchi di partenza non “dopata” (conti e bilanci in ordine), più competitiva e presente nel mondo (prodotti innovativi e di qualità), convincente agli occhi degli investitori (capace di mantenere le promesse), disponibile soprattutto per i giovani oggi costretti a immaginarsi il loro futuro professionale in terra aliena.
    C’è chi pensa che, in fondo, su scala regionale un paio di Province (e una Città metropolitana) sia più che sufficiente. E c’è soprattutto chi spera che l’Emilia e la Romagna provinciali non finiscano per divenire vere e proprie sub Regioni, nel solco della miglior tradizione italiana secondo cui occorre rifare tutto per non cambiare nulla (atavica e non solo romana tentazione, ahimè…).
    Ma c’è anche chi è convinto della necessità di dar vita a una profonda riforma istituzionale, senza secolari nostalgie preunitarie, capace di adeguare ai bisogni odierni l’articolazione politico-amministrativa dello Stato, logora e infiacchita. Le Comunità montane, ad esempio, da queste parti hanno svolto un ottimo lavoro; oggi i loro stessi amministratori ritengono che esse hanno portato a compimento la missione più per le ragioni in base alle quali esse erano state concepite, piuttosto che per i “costi della politica”. L’Unione di Comuni pare sia uno strumento foriero di buoni risultati, al punto da lasciare ragionevolmente intravedere vere e proprie fusioni per il prossimo futuro: coraggio, non ci si pensi su troppo a lungo. La precondizione perché ciò avvenga presto e bene è che si mettano assieme territori contermini, in grado di organizzare ambiti omogenei, vicini nelle culture come nelle dinamiche produttive.
    Insomma, le modificazioni territoriali e delle comunità sono evidenti e in tanti casi sono avvenute motu proprio, condizionate più dagli interessi economici che dalle attività pianificatorie della pubblica amministrazione. Paesi e frazioni si identificano più con la loro gente che con i Municipi. Il senso di appartenenza delle persone è legato ai luoghi, alle strutture produttive in cui si socializza e ci si riconosce. Storia e memoria, meno Comuni e più comunità nell’epoca della globalizzazione.
    Bisogna prendere atto della necessità di un’attenta revisione del sistema della governance istituzionale, senza rinviare sempre alle legislature successive, superando paure febbricitanti da consenso elettorale e mire gattopardesche, figlie principalmente di opportunismi di qualche “eletto”, ché pro tempore, per definizione e per legge. Sia invece la Politica a favorire la partecipazione della gente alla discussione su ciò che serve ed è utile oggi per l’autogoverno delle comunità; non sarà tempo perso. Iniziamo a praticare il principio federalista della sussidiarietà, lasciato fin qui ai proclami di qualche audace imbonitore, rivelatosi sleale coi suoi e con il suo Paese. I Partiti facciano sul serio la loro parte, giochino davvero il ruolo che gli compete: l’articolo 49 della Costituzione repubblicana non è mai stato di così straordinaria attualità. Ben venga il documento del PD della montagna (gl’altri partiti battano un colpo, se ci sono), da discutere con la gente e l’associazionismo di rappresentanza, magari da integrare (per la scrittura di altri vangeli c’è tempo…).
    Gli oltre 8mila comuni disseminati lungo la Penisola non sono uno scherzo. Sono troppi e troppo piccoli per agire in autonomia senza il supporto della Provincia, soprattutto per interloquire direttamente con il legislatore di prossimità (la Regione); figuriamoci con il Governo e l’Unione europea.
    Piccolo è bello si dirà. Certo, ma è anche costoso. E gli oneri maggiori non sembrano essere determinati tanto dai gettoni di presenza di sindaci-assessori-consiglieri-stipendi per la tecnostruttura, quanto invece dalle opportunità che per i piccoli comuni si vanno via via restringendo, quantomeno per l’attività progettuale (costosissima) che non può che essere per essi limitata. L’unificazione di piccoli comuni non sia un tabù; con essa non si cancellerebbero identità e località care ad ognuno di noi, che rimarrebbero intatte, uniche ed esclusive come lo sono le persone che le compongono. I Municipi di oggi potrebbero essere i piccoli uffici pubblici territoriali di domani, che per funzionare bene avrebbero bisogno di meno personale e più reti telematiche. I rapporti politico-elettivi (sindaco, vice, assessori, consiglieri) potrebbero tranquillamente essere regolati da Statuti, strumenti giuridici che la nostra Montagna ben conosce fin dal Medioevo (“Vallisnera”). Sarebbe pure l’occasione per ristabilire il giusto equilibrio della macchina pubblica che il legislatore continua pervicacemente a volere ostaggio di una burocrazia da decenni mortificatrice di intrapresa e predatrice di risorse “finite”. Semplificare senza banalizzare deve essere un imperativo sulla via coerente della modernizzazione e dell’efficienza.
    Si ragioni per ambiti ottimali, sinergie, per territori omogenei compatibili con le vocazioni della crescita socio-economica di cui c’è impellente bisogno. Siano queste le coordinate da seguire per la riforma partecipata dei Comuni, senza aspettare un nuovo Decreto del Governo. Ridisegnare la mappatura delle Province lasciando intatta quella dei Comuni è un po’ come raddoppiare un edificio mantenendo intatte le sue fondazioni; qualche “crepatina” c’è da aspettarsela. Riformare un sistema non significa limitarsi a cambiargli il nome. Con due sole Province in regione, comuni attualmente di confine sul Secchia e sull’Enza potrebbero addirittura “sconfinare” e mettersi insieme “agl’altri”. Perché no?
    Dunque, rimangano i campanili. Semmai si incominci ad abbattere qualche confine amministrativo. Ché di troppo. E soprattutto non si pensi di lasciarli invariati per altri 150anni: il mondo viaggia e viaggerà sempre più forte. “BRICS” docet.

    (Roberto Lugli – Carpineti)

  8. Province e Unioni di Comuni

    La gravissima crisi economica che sta colpendo il nostro paese e l’Europa, la necessità di intervenire efficacemente sul contenimento della spesa pubblica e di rilanciare la crescita economica del paese impongono riflessioni, ripensamenti e riforme anche radicali delle strutture istituzionali che dovranno coinvolgere i comuni (piccoli e grandi) , le province, le regioni e le istituzioni più alte della nostra democrazia parlamentare.
    Condividiamo appieno il documento del PD della Zona montana, sottoscritto da alcuni segretari, sul tema della riforma delle Province. I dubbi e le perplessità avanzate nel documento in merito al futuro della Provincia di Reggio Emilia sono anche nostri. Perdita di identità, marginalizzazione di un territorio che affonda i propri caratteri distintivi nella storia, totale indifferenza – nella riforma proposta – ad una analisi attenta e puntuale delle realtà istituzionali (province) che hanno operato con efficienza e grande incertezza sui reali benefici economici derivanti dagli accorpamenti proposti sono preoccupazioni anche nostre e che condividiamo. Anche noi avremmo preferito una riforma che costringesse gli Enti ( ad ogni livello) ad adeguarsi ai “costi standard” delle esperienze migliori e più efficienti.
    L’iter di questa discussione sarà ancora lungo e confidiamo che il dibattito politico ed istituzionale su questo tema possa migliorare questa riforma.
    Non ci convince affatto, invece, la conclusione del documento dove si propone una grande unione coincidente con il distretto socio sanitario.
    Nei mesi scorsi, all’interno del PD della zona montana, si è svolta una discussione che dopo numerosi incontri si è concretizzata con un documento unitario sul tema del riordino delle istituzioni della montagna.
    Siamo ormai tutti concordi sul fatto che la comunità montana abbia esaurito la sua (importante) funzione storica di agenzia per lo sviluppo della montagna e di centralità istituzionale nell’indirizzare e gestire investimenti e spesa pubblica a favore dei territori montani.
    Ci piace riprendere testualmente alcuni passaggi del documento del PD della zona montana, elaborato qualche mese fa, che ci trovano ancora d’accordo:
    “Va però considerata l’importante eccezione dell’Unione Comuni Montani, che rappresenta un percorso avviato da oltre 10 anni di unificazione dei servizi tra i quattro comuni situati nella parte più alta e decentrata della montagna reggiana.
    Su questa realtà si possono fare alcune considerazioni: 1) è un esempio che ha raggiunto obiettivi di unificazione dei servizi per quanto riguarda l’ambito socio-assistenziale, che può essere un esempio da seguire anche per altri contesti; 2) è un patrimonio di confronto politico ed amministrativo da non disperdere e il suo “re settaggio” in un unione più grande potrebbe invece comprometterlo; 3) l’attuale Unione potrebbe costituire la base per una futura fusione tra i comuni alto montani, ovviamente dopo un percorso attento di coinvolgimento e consultazione dei cittadini e lo svolgimento dei passaggi amministrativi necessari “
    E nelle conclusioni:
    Confermare l’esistente Unione Comuni Montani, considerandone la prospettiva di realizzare una piena fusione tra i comuni interessati.
    In ogni caso, anche con due unioni, non si deve perdere una rappresentanza unitaria del comprensorio e una discussione e un programma di governo unitari su temi strategici importanti per tutti. Su tutti i fondamentali servizi come scuola sanità e sulle scelte strategiche riguardati le infrastrutture e le attività produttive”.

    Del resto, ci sono fatti concreti che dimostrano l’efficienza e l’efficacia dell’Unione dei Comuni dell’Alto Appennino Reggiano:
    • due micronidi a Busana e Ramiseto che possono ospitare sino a 28 bambini in età da 1 a 3 anni;
    • la scuola di Musica del Crinale che in collaborazione con l’istituto Merulo prima e l’istituto nato dalla fusione tra il Merulo stesso e il Peri a partire dal 2011, e grazie alla preziosa disponibilità e coinvolgimento dell’Istituto Comprensivo di Busana offre formazione musicale ad oltre 60 ragazzi delle scuole medie ed elementari dei 4 comuni con l’insegnamento di 4 strumenti (pianoforte, chitarra, violino e flauto) all’interno dei plessi scolastici di Busana, Collagna, Ligonchio e Ramiseto.
    • un servizio sociale strutturato, con l’assunzione di un’ Assistente sociale (figura introdotta ex novo) e con 8 addetti che seguono decine di anziani su tutto il territorio dei 4 comuni;
    • un’unica commissione edilizia per i 4 comuni con la strutturazione di un servizio di edilizia privata che prima non esisteva e con l’armonizzazione dei costi inerenti i diritti di segreteria relativi alla gestione delle pratiche edilizie.
    • l’unificazione del servizio tributi, soprattutto per quanto riguarda la TARSU, che oggi è gestita ed introitata dall’Unione uniformando tariffe e procedure.

    Sono solo alcuni esempi che testimoniano come, grazie all’Unione, i Comuni del crinale da un lato hanno potuto raggiungere risultati di notevole portata dall’altro sono riusciti a mantenere le aliquote IMU su valori tra i più bassi della provincia e non hanno applicato l’addizionale IRPEF.

    Anche noi, come il sindaco di Carpineti, crediamo che, se il compito delle Unioni è quello di gestire e di ottimizzare servizi ed efficienza dei Comuni, gli ambiti e le aggregazioni, per poter funzionare , non debbano e non possono essere troppo grandi.
    Anche noi, come il Sindaco di Castelnovo Monti, crediamo che sia importante una visione unitaria, con Castelnovo Monti al centro, della montagna reggiana. Sui temi della sanità, della viabilità, delle infrastrutture telematiche e del lavoro è indispensabile una visone politica unitaria. Ma questo è il compito della politica e dalla capacità degli amministratori e delle forze più vitali della società di “fare sistema” attorno ad una comune identità montanara.

    IL VICEPRESIDENTE IL PRESIDENTE
    Sandro Govi Giorgio Pregheffi

    • in effetti, lavorare con la fantasia sulla composizione di nuovi enti non considerando quelli che già funzionano con efficienza e risparmio, sembra anche a me fuori tema.

      La spinta economizzante e apparentemente efficientista che suggerirebbe di ricomporre gli enti che esistono all’interno di una singola nazione, è immatura rispetto agli stessi problemi che ci sono nella composizione ai livelli generali dell’Unione Europea che risulta sempre più difficile chiamare tale.

      Sicché, parlare di ricomposizione delle Unioni di Comuni, mentre non si è ancora definita quella delle province, così come parlare, per una sola nazione, di ricomposizione dei suoi enti locali prima di aver verificato se gli stati componenti dell’Unione Europea stanno funzionando o meno, è un altro passaggio che mi sembra fuori tempo.

      A parte questo, io vedo male questa forzatura sulla revisione delle province le quali, se vogliamo essere sinceri fino in fondo, sono più vecchie e consolidate delle Regioni, create dopo, le quali tendono somigliare sempre di più delle Roma 2, troppo distanti dai cittadini, tanto che a ben vedere appaiono come l’introduzione di un passaggio amministrativo in più nella gestione dello Stato e nell’erogazione dei fondi destinati a valle dei grandi sistemi.

      Se le province potessero rapportarsi direttamente con lo stato, specialmente in materia di erogazione dei fondi, credo che per i Comuni e per le Unioni, degli stessi di fondi ce ne sarebbero di più, perlomeno che sarebbero alleggeriti del costo di mediazione delle Regioni.

      Brutalmente io preferirei abolire le Regioni, anzichè ridurre le province.

      Ma tornando alla composizione delle Unioni di Comuni all’interno di una propria provincia, che non si sa quale sarà in seguito, penso davvero che vadano lasciate operare in pace, come stanno facendo, quelle che già funzionano bene e semmai concentrarsi sul come raccordarle meglio ai grandi servizi territoriali: sanitario, idrogeologico, giustizia ecc. ecc.

      Infine il grande timore diffuso è che questi enti che appaiono troppi, come le province e le comunità montane, alla fine di questa programmata ricomposizione che porterà alla costituzione di nuovi enti territorialmente ricomposti ma numericamente forse identici se non maggiori di prima, è che l’obbiettivo iniziale di risparmiare della spesa pubblica fallisca lo scopo.

      (Marco)