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A scuola come va? Una riflessione col sorriso, da veri privilegiati

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scuola creativa
Un momento di scuola creativa

Parlare di scuola scatena emozioni. In chi la vive dal di dentro, perché sa come ci si sta. E in chi non ci lavora, per tutto quello che si sente dire in giro.

L’istruzione obbligatoria in Italia c’è da relativamente poco. La legge Coppino del 1877 prevedeva l’obbligo scolastico per il primo triennio delle elementari. Altre riforme nei due secoli successivi hanno portato alla situazione odierna. A scuola ci si va fino a 16 anni.

Un tempo l’istruzione era prerogativa della Chiesa. In seguito si è assistito a un processo di laicizzazione della scuola. Nuove figure educative sono comparse sullo scenario sociale. Il maestro, e poi il professore.

Chi sono ora costoro?

A detta di molti, dei privilegiati. A detta di loro stessi degli “sgarruppati” saltimbanchi dediti quotidianamente alla quadratura del cerchio.

Nella diatriba che vede opposte le due squadre, docenti contro il resto del mondo, sembra di assistere a un dilemma atavico: Atene e Troia. Coppi e Bartali. Milan vs Juve. Ma in questa partita non si vince niente. Se non, a quanto pare, del gran nervoso.

Chi sta fuori dalla scuola la vede come un mondo dorato, di colletti bianchi e immacolati. Il docente, secondo gli idealizzatori, sarebbe un essere appartenente a una specie protetta che arriva al mattino fresco e riposato, fa le sue tre ore di lavoro al giorno, e torna calmo e tranquillo a casa dove, corretti due compiti, si riposa, beato, a leggere un libro in poltrona. Passeggia un po’, coltiva vari passatempi, e poi…beato lui, si fa 4 mesi di vacanza, Pasqua, Natale, patrono e ponti. Va in classe e solleva una biro, fa la sua lezione da seduto, ossequiato e ascoltato dagli studenti, riverito e rispettato dalla comunità. Fino a giugno. Poi se ne parte in vacanza, mari o monti, e si ripresenta abbronzato e divertito a settembre. Per lo stesso iter più o meno. La gente, quelli che non ci lavorano nella scuola, e che magari non hanno figli che ci vanno, li vede così gli insegnanti.

Per lo studente invece, a una prima occhiata, il professore è un essere che si materializza fuori dalla porta quando suona la campanella, non ha una vita propria, ma ha due opzioni: interroga e mette giù dei voti a raffica, o attiva lo sgridatore. Questa funzione docente può declinarsi in vari modelli: esiste il prof. che attiva lo sgridatore con urlo, un altro col fischio, altri in via di estinzione che magari tirano il gesso, (questa ultima variante poco, perché la denuncia scatta per molto meno). Altri sibilano e danno quella cosa che si chiama in gergo “rapporto”, su cui ci hanno scritto anche dei libri del tipo “La classe fa la hola mentre spiego.”

Insomma nella fauna docenti vi sono diverse specie.

C’è chi lo sgridatore non lo attiva e utilizza invece la piena assoluzione perché tanto…sono ragazzi.

Morale che il pensiero dello studente è manicheo: professore che dà note e ritira il cellulare, cattivo, professore che non le dà, buono.

L’insegnamento e l’apprendimento sono dettagli secondari per lo studente moderno nella scuola italiana. Sottigliezze. Al massimo ci si può esprimere con un “spiega bene” o “non si capisce niente quando parla”.

Le verifiche e le interrogazioni, “che gran scocciatura e speriamo che non mi becchi.”

Il genitore invece guarda al docente del figlio con grandi aspettative. Se il figlio non sa star seduto su una sedia a 16 anni, bè, sti professori non sanno più insegnare. “Quando andavo a scuola io…” e giù l’apoteosi del maestro TaldeiTali che era sì severo, ma così bravo che con una mano ti piantava un ceffone, perché allora si usava così, e con l’altra ti aveva già insegnato le preposizioni semplici e articolate in prima elementare. E Dante in quinta. Perché allora si studiava fino alla quinta, eh già, allora si usava proprio così (che poi non è vero, ma fa molto “andavameglioquandoandavapeggio” dirlo).

Poi ci sono loro, gli insegnanti essi medesimi.

A guardare da vicino si scopre che per laurearsi hanno cambiato città, che mentre studiavano per non pesare sui genitori, andavano a servire in pizzeria o fare i letti in un albergo, il primo stipendio se va bene a 27 anni. Raggiunta la laurea inizia il precario-tour, un carosello di scuole su e giù per la provincia, fatto di alzatacce per viaggiare con corriere o, quando va bene, macchinate di colleghi da aspettare. Pieni di buona volontà, i mattinieri si apprestano a insegnare Dante che ora si studia mediamente a 15 anni circa, mentre gli studenti chiedono se non sarebbe possibile, visto che nevica, (cosa c’entra?) guardare Scary Movie 3 la Vendetta. Se poi si programma una verifica, Veronica implora di non farla perché oggi ha le sue cose, e ieri aveva mal di testa e non ha potuto studiare la tabella di verbi assegnata tre settimane prima. Il tutto narrato in un contesto con decibel ben superiori ai limiti tollerati dall’Arpa. Ma si sa le corde vocali dei docenti sono in microfibra, e resistono.

 Tra riunioni pomeridiane, che la gente non sa, ma accadono regolarmente, corsi di aggiornamento e ricevimenti vari, i nostri baldi docenti tornano a casa a orari variabili e oltre a gestire le loro cose, del genere una famiglia, una visita medica, o attività per la conservazione della specie come la spesa, devono correggere quelle che tuttora il ministero insiste a chiedere, e che si chiamano verifiche. Oppure si dilettano a preparare uno straccio di lezione per il giorno dopo da svolgere nelle 3, 6 o anche 12 classi. Che proprio volendo fare i pignoli contengono anche 28 o più alunni, coi tagli e accorpamenti dello spending review dei poveri.

E uno magari arrivato a sera ha anche la testa stanca, è nevrastenico, non sopporta i rumori, e se si avvicina il proprio di figlio, con un quaderno in mano in cerca di aiuto per i compiti, verrebbe da cercare un accendino per dargli fuoco, al quaderno. Non al figlio, si spera.

Ma c’è una cosa che chi guarda dai vetri non vede. Ed è il vero privilegio di fare il mestiere di insegnante. Quello di vivere quotidianamente con la vivacità, l’energia vitale degli adolescenti.

Poter veder crescere i propri alunni, far progressi, acquisire autonomia di pensiero e capacità di riflettere, dà un senso al fare scuola. Vederli padroneggiare le loro paure, fragilità, condividere il percorso evolutivo, in cui le materie sono solo un pretesto, è un’emozione impagabile. Stando in ascolto, i docenti a scuola imparano un sacco dagli alunni, sulla vita.

L’aspetto creativo dell’adolescenza, l’affettività che si condivide a scuola, l’aspetto umano, la soddisfazione di un traguardo in mezzo al casino, sono momenti che ripagano le alzatacce, le frustrazioni di uno stipendio non adeguato a una laurea, le dicerie della gente distratta.

Nonostante lo sgridare, la frustrazione, l’imprecare, lo stramaledire contro il governo, il precariato e la legge sul pensionamento, far scuola è ancora un privilegio.

Sì, avete ragione, siamo dei privilegiati. Ma non per i giorni di vacanza.

Per tutto il bello che c’è da scambiarsi a scuola.

Chi non vede questo finisce per travisare la realtà, e magari a furia di non vedere le cose alla dritta, rischia di scambiare un cioccapiatti per un eroe. E, se non sta attento, va a finire che lo vota anche.

 

10 COMMENTS

  1. Vista l’autrice del pezzo non posso esimermi di aggiungere i miei ricordi di giovane docente precario che nei lontani anni 70 ebbe il “battesimo della cattedra” proprio lassù tra Liceo, Magistrali e Ragionieri di Castelnovo ne’ Monti. Fortunatamente le scienze naturali interessavano gli studenti e non erano difficili come latino e matematica quindi, tutto sommato, il rapporto con le classi era buono. Naturalmente la differenza minima di età aiutava non poco, soprattutto in gita e a sciare… Ma non dimenticherò mai quegli anni che, quando ci ritroviamo tra colleghi, rievochiamo con nostalgia. Straordinario e mai più ripetutosi nelle scuole di Reggio nel trentennio successivo il rapporto con i genitori. Allora si riceveva solo di lunedì, perchè c’era mercato, e sento ancora nelle mani il ricordo ruvido di quelle che stringevano le mie: mani forti, a forma di badile, di madri e padri che evidenziavano, nella durezza del lavoro quotidiano, i sacrifici che facevano per far studire i figli nella speranza di fornire loro un avvenire migliore. Gli studenti sapevano bene che bastava una nostra lamentela ai genitori sul loro impegno scolastico per garantire “sonore” punizioni al rientro a casa. Di conseguenza anche il loro comportamento in classe era allegro ma rispettoso e attento a conservare un buon rapporto con l’insegnante. Ricordo poi sempre i momenti bellissimi con il Preside Ennio Cicero, mancato di recente, che ha dato un’impronta decisiva al mio impegno scolastico. Mi fermo qui per non concludere pateticamente nel solito “non c’è più la scuola di una volta” perchè qualcuno mi ripete sempre che le cose di una volta ci piacciono di più soltanto perchè eravamo più giovani.

    (Gioacchino Pedrazzoli)

    • Firma - GioacchinoPedrazzoli
  2. Ai miei tempi c’erano solo doveri (parlo da studente) e se andavo a casa con una nota erano botte, per fortuna è capitato una volta sola. Ai miei tempi, c’erano solo doveri (parlo da insegnante) con dovuto rispetto per colleghi, genitori e studenti. Ora sono fuori scuola, ma a notare come i giovani si comportano temo che i doveri non glieli abbia più insegnati nessuno e sarei preoccupata seriamente se dovessi fare l’insegnante al giorno d’oggi, perchè capisco e me ne dispiace per come si è ridotta la scuola e la vita dei docenti.

    (Ilde Rosati)

    • Firma - ilderosati
  3. “Insegnamento [in-se-gna-mén-to]: trasmissione di conoscenze e di esperienze con cui si istruisce qualcuno in una disciplina o, più in generale, si forniscono stimoli alla crescita psicologica e intellettuale della persona”. Dal vocabolario, insegnare è qualcosa di molto di più che starsene dietro una cattedra a fare una lezione (magari noiosa) di qualsiasi materia. Insegnare è sopratutto un modo di far maturare noi ragazzi e farci trovare ciò che realmente vogliamo fare del nostro futuro. Quindi, più che insegnanti di materie direi insegnanti di Vita.

    (Uno Studente)

    • Firma - (UnoStudente)
    • In termini didattici, tra noi docenti, si usa dire che gli studenti, al termine del loro ciclo di studi, devono “Sapere, Saper Fare, Saper Essere”. Più o meno corrisponde ad essere insegnanti di materie e insegnanti di vita. Tra noi c’è chi sostiene che dobbiamo solo insegnare conoscenze specifiche e che a insegnare a vivere ci devono pensare altri (la famiglia, la società in generale). Personalmente, ritengo che i ragazzi siano molto sensibili al nostro modo di fare, e che, di fatto, diamo loro un esempio di vita. Non tanto per le nozioni che cerchiamo di trasmettere loro, ma per “come” lo facciamo. In positivo e, naturalmente, anche in negativo…

      (Giorgio Bertani)

      • Firma - GiorgioBertani
  4. Grazie all’amica autrice del pezzo per avere ricordato la caratteristica unica e speciale dell’essere insegnanti: il rapporto con i ragazzi. Ti fanno sgolare, ti fanno ammattire, ti fanno arrabbiare fino ad avere voglia di mangiarli, poi, quando meno te lo aspetti, arriva il momento magico in cui si incantano ad ascoltare una lezione che li colpisce e si appassionano e partecipano e intervengono con la forza e l’entusiamo della loro giovinezza. In quel momento tu, insegnante ormai molto disincantato, che sogni la pensione un giorno sì e l’altro pure, sai che non esiste lavoro più bello al mondo e che vivere in mezzo ai ragazzi è un grande privilegio.

    (M.G. Violi)

    • Firma - M,G,Violi
  5. ……ma come sono cambiati gli insegnanti di oggi: tutti a capire, a dialogare, a vivere una missione in mezzo ai ragazzi. C’è stato un anno che quei……. mi hanno dato 7 in condotta, unica sufficienza in pagella, e mi hanno bocciato. Non me ne ricordo neanche uno di loro… oh! Per loro sarà anche il lavoro più bello del mondo, ma quando finalmente è arrivato il giorno, quell’ultimo giorno, per me è stato la fine di un incubo.
    Cosa dice la psicoanalisi?

    (mv)

    • Firma - mv
  6. La scuola può diventare un incubo anche per studenti che hanno voglia di imparare ma si incontrano con persone che tutto potevano fare ma non gli insegnanti. Quando io ricordo i miei professori e anche le mie mastre penso sempre che quelli bravi che ricordo con affetto, erano bravi non perché davano bei voti facilmente, anzi magari erano proprio quelli che ti facevano studiare di più, ma non ti trattavano con arroganza, non usavano il loro potere di professore per sentirsi più importanti erano bravi e basta; quando penso a quelli che magari ti trovavano l’errore a tutti i costi per non darti un voto più alto o addirittura leggevano i risultarti delle verifiche come fossero schedine del totocalcio perché si sentivano grandi a dare dei 2 ecco ancora mi arrabbio, e in cuor mio penso che a parte lasciare un pessimo ricordo di se siano dei falliti some insegnanti e anche come persone…. Credo che i tempi non siano cambiati così tanto, tra gli studenti c’erano i tremendi come ci sono oggi e tra i professori ci sono oggi come allora quelli bravi con la B maiuscola e quelli che hanno sbagliato professione.
    (Stefania)

    • Firma - Stefania
  7. Come ci sono infermieri, baristi, medici, parrucchieri, autisti e via discorrendo che hanno sbagliato mestiere. Ci sono genitori che hanno sbagliato mestiere. E anche alunni che pur avendo compiuto l’obbligo scolastico si ostinano a parcheggiare nella scuola, e non avendo nessuna educazione e interesse per il sapere, non sapendo cosa fare, sfasciano, rompono, e non solo gli oggetti.
    Di errori ne è piena la società.
    Qui si parlava di persone che hanno un intento comune: insegnare e imparare. Poi ci sono le anomalie, si sa.

    (d.)