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L’altro non è responsabile della tua vita

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bimba-cinese-infermieraDipendere affettivamente significa che il benessere emotivo deriva dall’esterno. Si è nutriti da qualcosa che è fuori, non dentro se stessi. La responsabilità del proprio benessere ce l'ha Altro, o nel caso di una persona è l’Altro. Vi sono parecchie forme di dipendenza:

  • Sostanze chimiche, alcol, cibo, assunti per riempire un vuoto percepito, per tentare di cancellare il dolore, fisico o psicologico.
  • Comportamenti come Shopping o sesso compulsivo, scommesse, connessioni tecnologiche che danno un’illusione di connessioni relazionali, ma che ne falsano totalmente la reale natura.
  • Dipendenza dal potere, dal guadagno, dal lavoro compulsivo, dalla ricerca di autostima, sentirsi adeguati, valore di sé mai raggiungibili.
  • Dipendenza dall’approvazione, dall’amore di qualcuno, di ottenere attenzione , ricercando la sicurezza nella presenza e affetto dell’altro.

Quando non ci si prende la propria responsabilità per definire chi si è, il proprio valore, quando non è possibile sentirsi al sicuro dentro se stessi si cercherà di colmare tale inadeguatezza con qualcosa o qualcuno, ricercando questo senso di falsa ed illusoria sicurezza fuori. La dipendenza affettiva diventa quindi l’opposto dell’assumersi la responsabilità per il proprio benessere emotivo. Tuttavia le persone non hanno la consapevolezza che è loro la responsabilità del prendersi cura di se stessi, e non sanno minimamente da dove iniziare a prendersi la responsabilità della loro vita. Si aspetta che Altro o l’Altro riempia vuoti, soddisfi esigenze, ripaghi vecchie ferite. È la sindrome del bambino che aspetta la mamma seduto sul vasino che arrivi a pulirlo. Incapace o ignaro di potersi pulire da solo, fino a quando non impara.
Come ci si prende la responsabilità di se stessi?
Riconoscendo per prima cosa che quanto sentiamo deriva da quanto pensiamo. Abbiamo un sistema di credenze, una visione del mondo che ci fa guardare il mondo con quegli occhiali e tutto viene letto con quelle lenti. Basterebbe cambiare occhiali e non vedremmo più il mondo di quel colore. Si è responsabili di quanto si crede. E spesso si è disposti a morire piuttosto che cambiare la propria idea su di sé  e sul mondo. Non è quello che ci fanno a creare dolore. È l’interpretazione di quello che sta succedendo a far soffrire. Una telefonata non arriva, e subito il fatto è vissuto, interpretato come un segno di disamore, di disattenzione. E prima ancora di verificare la natura dell’evento spesso si scatena la parte persecutoria, vendicativa o lamentosa, vittimistica, atta a dimostrare che l’Altro non ci ama, e pertanto non siamo degni di amore. Tutto questo perché del proprio senso di inadeguatezza viene attribuita la responsabilità all’Altro. L’Altro non può essere responsabile per come ci sentiamo. Ognuno fa il suo film. Chi non è dipendente affettivamente riesce a distinguere quando l’Altro è nel suo vissuto e i suoi sentimenti non hanno nulla a che fare con noi stessi. Se siamo convinti di essere responsabili per quanto sentiamo riusciremo a vedere che anche gli altri lo sono per se stessi. Così di fronte ad accuse dell’altro non ci faremo agganciare rispondendo con una escalation di "rinfacciamenti" da cui staremo fuori, ben sapendo che non è roba nostra, che non siamo noi la causa, né siamo sbagliati. Quindi è necessario scindere di chi è il materiale emotivo in atto e non perdersi in un gioco di proiezioni infinite. Se il comportamento dell’Altro ci distoglie dalla serenità, l’unica cosa utile da fare è osservare dentro noi stessi, cosa scatena il comportamento dell’Altro. E da lì iniziare a esplorare cosa c’è di irrisolto. Qualunque cosa si trovi, solitudine, paura dell’abbandono, senso di inadeguatezza, paura del rifiuto, non c’è altro che accoglierla, come una parte oscura di noi stessi, che per anni magari abbiamo nascosto e giudicato.
È nella mancata accettazione di questa parte dolorosa il dolore maggiore.

 

1 COMMENT

  1. Complimenti, bell’articolo. Ho sempre considerato le persone dipendenti dall’altro una sorta di “persona-zaino”, riconoscendole in quanto anch’io sono stato uno zaino. Quando me ne sono reso conto ho cominciato a cercare il modo di stare in piedi con le mie gambe. Credo che queste persone “soffochino” l’altra persona usandola come si potrebbe usare un dentista o un meccanico rendendo così un rapporto di dipendenza emotiva che alla lunga finisce con lo sfinire il “portatore”. Bello anche il paragone del bambino e del vasino. Ancora complimenti.

    (Roberto Zappaterra)

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