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Mastorchade in giro

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Una foto d'antan di Silvano Scaruffi (o di un suo avo)
Una foto d'antan di Silvano Scaruffi (o di un suo avo)

Lunedì 24 giugno alle ore 21 nel cortile interno della biblioteca di Castelnovo ne' Monti si presenta il libro di Silvano Scaruffi "Mastorchade". Assieme all'autore interviene Benedetto Valdesalici. I due parleranno, leggeranno, per divertire e convergere su fondamentali questioni di crinale: è più pericoloso passare davanti a Capler di Montecagno mentre guarda un puntata di Spazio 1999 o sfidare la tramontana alla curva del Costolo? Quali misteri imperscrutabili si celano dietro le Aravoiate di Legione?  Il Gatlone può essere considerato un precursore della fisica dei quanti?

Ne parliamo, in anteprima, col ligonchiese Silvano Scaruffi.

* * *

“Ecco, quando in paese arriva qualcuno che non è di qua, tutti lo squadrano un po’ e pensano Vè! Uno che non è di qua.

Tenendo conto che siamo un migliaio. Che sull’elenco telefonico occupiamo una mezza paginetta tra Guastalla e Luzzara. Che il paese sorge ai limiti di un parco nazionale (che sa un po’ di presa in giro). Che ci troviamo nell’Evo-Devo. Che una domenica sono andato all’esposizione ornitologica internazionale e vendevano un cardellino a quindicimila euro. Che quando han detto che avrebbero tolto il lampadario della chiesa per cambiare prospettiva di illuminazione, per poco in paese non scoppiava una guerra civile. Che l’orizzonte visivo cosmico è di quarantadue milioni di anni luce. E tenendo conto che nella piazza, che poi è un tornante, viveva un faggio secolare, ma l’hanno tagliato. Ci han discusso mesi, chi diceva che era malato, chi insisteva che le radici avrebbero finito per ribaltare il campanile a fianco, chi pronosticava che se uno dei rami secchi si fosse staccato per una ventata qualcuno sarebbe finito spiaccicato da una ramata. Fatto stà che poi l’han tagliato. E poi tutti si son lamentati, e quel che resta del fusto e qualche ramo mozzo, l’hanno imbalsamato e piazzato in esposizione. Che nel padiglione a fianco ne vendevano uno a ventimila euro, di canarini. Che quando ci sono abbondanti buttate di funghi, dopo si scatena anche una furibonda ricerca di fegati da espiantare. Che il coro fa ‘Sì, la vita s’addoppia al gioir’. Che tutto iniziò con il taglio di una maruga, infetta, si arrivò a dire dopo. Che qua tira il vento, sempre. Che a Ligonchio ci sono più di sessanta casati, contati. Che il dialetto è una lingua, l’italiano un’imposizione. Che gli Aligonti ci son stati, forse nò. Che mia nonna stava un po’ poi diceva “Eppure, la Terra li regge tutti.” Che la farina gialla va fatta precipitare pian pianino nell’acqua bollente, altrimenti la polenta la fa i bazzocle. Che la rampata del Pigiolo è un’unità di misura di pendenza. Che qualcuno dice di aver visto gli orsi. Che Armadgat! Che la neve scricchiola quando s’ammucchia. Che dicono che San Rocco ci ha salvati dalla peste. Che i canarini son cari arabiti. Che delle volte a casa saltan fuori dei lenzuoli o delle coperte che mia nonna aveva comprato dal povero Carotto di Villa. Che se i casati sono sessanta, contati, i soprannomi almeno seimila, stimati. Che di dzertòr in giro non se ne è più visti. Che Iambo ha saputo che la Bibbia dice che all’uomo servono solo: acqua, fuoco, ferro, farina di frumento, latte, miele, sangue d’uva, olio e mantello. Evè, ha gridato Iambo, e el donn!? Che conta che ti riconta, siam sempre un migliaio, forse sette, otto di meno anche. Che “A coltivar la mente in solitudine” diceva qualcuno. Che c’è uno che di soprannome lo chiamavano Tranèll, un altro Topascega. Che gli ecosistemi naturale e antropico sono delicati, friabili, per certi versi indifesi dalla avanzata della massa turistica itinerante. Che esiste la sindrome della mano aliena. Che se poi va tutto a botaccio ci toccherà ritirarci ancora sul monte Balista. Che mi sembra di ricordare che c’era un tipo che lo chiamavano La cernia di Nassau. Che non è per fare della dietrologia, ma tutta sta gente che scarpina, si arrampica, fotografa, raspa qua intorno a me mi sa che mica si diverta poi così tanto a farlo. Che una volta, a parte il cuore, sul far della sera tornai verso casa. Che poi quel giorno lì, c’era Il Gatlone seduto su un sasso sotto casa che con un bastone rugghiava tra le ghiarelle. Che non è per fare il puntiglioso, ma infilarsi due racchette ai piedi e sforangare neve per chilometri, magari di notte, a me sa un po’ da bachiocchi. Che una volta Parafango ha detto a Brasco “Quando ti faccio segno, frena senza pietà.” Che vivere qua è come stare nella parte inferiore di un guscio d’uovo spaccato. Che una volta dovevamo pagare anche una tassa sulla nobiltà che si chiamava Fodro. Che Micca aveva tirato un falcetto dietro al vento che lo infastidiva. Che alla fine han ritrovato anche la grotta di Antonio e c’erano anche le incisioni che lui aveva fatto sui sassi, anche quella di un carro armato. Che un tizio di Vaglie, guadando l’Ozola con il suo cane, si accorse che l’acqua era troppo alta e turbinosa, mollò il guinzaglio e gridò ‘Ognun per sé!’.  Che alle volte si ha la sensazione che il mondo abbia sciolto gli ormeggi. Che vista così, la vita di frontiera, di gente di confine, asserragliata da millenni su un costone roccioso, con vette frastagliate e aguzze a difesa, sembrerebbe il prototipo di un’esistenza in via d’estinzione. Ecco, allora uno si mette lì e scrive un po’ di racconti, in dialetto, si inventa un vocabolario fonetico per riprodurre i suoni e gli schiocchi dell’idioma, li traduce per chi proprio non ce la fa e ne esce un libro. Che poi, dopo qualche mese, ci si rimette lì, convinti che il nocciolo sia tutto nel suono, allora si rileggono i racconti registrandoli, se ne stampano un po’ di cd e insieme al volume scritto si ha anche l’Audiolibro. Ecco tutto”.

 

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