Home Cultura La satira in montagna / 3

La satira in montagna / 3

19
0

la satira 

E arriviamo a colui che è ritenuto, a ragione, il più grande autore di satire di tutti i tempi per la nostra montagna: Isaia Zanetti. Era nato l’11 Maggio del 1899 ed è morto il 4 Dicembre 1971. Nella vita ha sempre fatto il contadino, tra Zucognago e La Casoletta, nella frazione di Villaberza.

Il carattere. Mi è stato riferito che il padre era un tipo severo e non ammetteva obiezioni. Per questo Isaia è cresciuto con un carattere scorbutico e ribelle alle autorità, quali che esse fossero. Viene considerato il nuovo caposcuola della satira montanara, non per sua consapevolezza: di sicuro non si rendeva conto di cosa significassero, allora, i suoi componimenti sia per il valore sociale (documentare la società del tempo), sia per quello letterario.

La produzione è abbondante, ma possediamo pochi testi che siamo riusciti a ricomporre registrandoli, pezzetto dopo pezzetto, dalla voce di chi ne ricordava i brani più interessanti. Poi li ho ricostruiti con un paziente lavoro di analisi, di indagine sugli eventi, di ricerca sulla qualità del testo e le caratteristiche stilistiche che distinguono Isaia da altri autori, sfruttando anche le nozioni di metrica che possedevo. È stato possibile così ricostruire cinque o sei satire che danno già l’idea della produzione di Isaia.

Lo stile di Isaia, per quello che ho potuto costatare, risulta il migliore in assoluto fra quelli degli autori dialettali del 1900 per ciò che riguarda la satira nella montagna reggiana. Ha la rima facile, la musicalità del verso, le immagini fresche e immediate, i paragoni efficaci.

Gli argomenti trattati da Isaia sono tutti legati al luogo dove egli è vissuto e alle persone che lo abitavano: Villaberza. Sembra non veda altro che i difetti dei paesani, difetti che esalta con descrizioni particolareggiate.

 Nell’opera di Isaia si sviluppano tre punti, tre tesi che egli sostiene, anche qui senza rendersene conto:

 1) I veri lavoratori sono solo i contadini e gli operai. Liberi professionisti, impiegati, studenti e insegnanti sono solo dei parassiti che vivono a spese dei contadini.

 2) I contadini sono dei poveretti per definizione. Non interessa se hanno stalle piene di capitali, se commerciano bestiame, se incassano grosse somme al caseificio. Restano dei poveretti per il semplice fatto che lavorano la terra.

 3) L’autorità va combattuta con ogni mezzo, calunnia compresa, perché rappresenta l'oppressione dei contadini.

Il materiale che sono riuscito a ricostruire, come dicevo, è limitato. L’ho recuperato  grazie alla forte memoria di alcuni amici che ascoltavano Isaia all’Osteria del Moro, e hanno poi memorizzato le satire. E qui va ricordato un aspetto caratteristico per la trasmissione della satira. Non potendola trascrivere, la si ripeteva a voce. La memoria dei nostri antenati, (forse perché libera da tante nozioni che abbiamo oggi e più esercitata), memorizzava facilmente i componimenti. Occorre anche tener presente che, una volta entrati in tema, se la memoria tradiva, chi recitava la satira riusciva a supplire di persona senza che l’ascoltatore se ne avvedesse. In conclusione il prodotto restava del poeta iniziale, ma l’esecuzione pubblica diventava un lavoro a più mani. Più o meno come succede con la musica, che resta del compositore, ma il sapore, la freschezza gliela dà l’esecutore.

Di Isaia oggi possediamo questi testi che possiamo considerare quasi completi: Pellegrinaggio a Fontanellato, Le scarpe del podestà, O raghés, stē un pô atênt, La schola cantorum, oltre a qualche frammento. Trattandosi di opere molto prolisse non è possibile trascriverle tutte in questo articolo. Darò solo alcuni assaggi.

Pellegrinaggio a Fontanellato. Terminata la seconda guerra mondiale i parroci del nostro territorio organizzarono pellegrinaggi di ringraziamento verso i santuari più noti, tra cui Fontanellato. Anche la parrocchia di Villaberza si organizza, e Isaia non aspetta altro. Può mettere in ridicolo i partecipanti e screditare il parroco. Da testimonianze di gente vissuta vicino a Don Zini so per certo che il sacerdote non dava adito a possibili chiacchiere. Anche quando portava aiuti ad una donna poverissima, ma ritenuta poco seria, prendeva con sé uno o due chierichetti come testimoni della propria condotta. Era di carattere severo fino a sembrare misogino. Ma non temeva di intervenire in caso di pericolo, anche a rischio della propria vita, come nel caso della strage del monte Battuta. Però rappresentava l’autorità religiosa e allora Isaia fa di tutto per screditarlo:

           Don Batìsta (ch’al srê ‘l càp)

lû l’é ‘l re d’ tú-c i pajàs.

                   Al fà sémper dal pensâd

               da far rìdre e spajasâr.

[Don Batìsta (che sarebbe il capo) lui è il re di tutti i pagliacci. Ha sempre delle trovate da fare sbellicare dalle risa].

Dei propri paesani, anche se sono contadini come lui, quasi analfabeti come lui, non se ne salva uno:

A gh’é di fûrb e d’ji istruî,

           d’ji ignurânt e d’ji imbambî,    

                         a gh’é di sêvi e po’ anch d’i mat

        e s’a gh’é anch d’i pajàs.

[Ci sono dei furbi, degli istruiti, degli ignoranti e dei rimbambiti, ci sono dei saggi e poi anche dei pazzi, e se ci sono pure degli incoerenti].

 E come ci presenta i pellegrini?

               A gh’ fu cul bel biundîn d’ Gaitân,

cul mèš mat ad Simindân

                  e cul spurcaciûn d’ Ricûn,

                           cul trampèl d’ Jusfîn dal Cân,

cla pursèla d’ la Diutìsta,

e ‘l cap l’era don Batìsta.

[Ci fu quel bel biondino di Gaetano, quel mezzo matto di Se-me-ne-danno, quel criccolento di Enricone, quello sgangherato di Giuseppe del Cane, quella maiala della Diotista, e il capo di tutti era Don Battista].

Le scarpe del podestà. Il podestà di Castelnovo in carica durante la guerra aveva cercato abiti e scarpe usate da distribuire gratuitamente ai poveri del comune. L’operazione era umanitaria ma anche rischiosa perché bisognava andare a recuperare il materiale nei territori oltre il crinale col rischio di essere scambiati per contrabbandieri (la borsa nera allora funzionava alla grande!) e fucilati tanto da parte dei fascisti che dei partigiani. E questo l’ho saputo da uno che aveva preso parte alla spedizione. Per Isaia invece si tratta di una iniziativa di pessimo gusto e pericolosa per la salute. Sembra però che anche lui avesse ricevuto un paio di scarpe che non hanno figurato bene. Da qui la vendetta! Ecco la descrizione del prodotto e i rischi per chi lo usa:

... l’ha tirâ föra ‘l sö savàt,

              túti spôrchi, tmarulâdi, (5)

                           ch’a n’ se sà chi a gli ha purtâdi!

                      A mètse ai pê sti serpênt

                                  a s’ prê murîr int un mumênt.

                          Cun ‘na sgherblâda lênca in gîr

                un’infesiûn la t’ pudrê gnîr.

[Ha messo in mostra le sue ciabatte, tutte sporche, rappezzate, e non si sa chi le ha indossate! A mettersi ai piedi questi serpenti si potrebbe morire all’improvviso. Con una ferita in giro potresti contrarre un’infezione].

 Poi ecco l'esecrazione finale:

     L’ha studiâ tânt da dutûr

e permètel sêrt lavur?

                                        I’ v’al dìgh pròpia francamênt:

                                            l’è un sumàr ch’a n’ capìs gnênt.

  Barba grîša d’un cretîn,

li vöt dâr ai cuntadîn?

                               Dio te fúlmina int la vìsta,

                          tînli e dàli ai tö fascista.

                                 Perché i’ n’ gh’èm gnân da tribulâr

                     a s’ vöt gnîr ânch a impestâr?

[Ha studiato tanto da dottore e permette certe cose? Ve lo dico francamente: è un somaro che non capisce nulla. Barba grigia di un cretino, le vuoi dare ai contadini? Dio ti fulmini nella vista, tienile, e offrile ai tuoi fascisti. Già che non abbiamo abbastanza da tribolare vuoi venirci anche ad infettare]?

 Nella satira O raghés Isaia fa una valutazione dei mali che le guerre portano, in particolare tra i poveri. Poi passa ad analizzare le prime elezioni del dopoguerra, per concludere che le cose non cambieranno mai, e governeranno sempre i soliti imbroglioni:

     Pr’ēser sempr’ in magiurânsa

lûr caplèt a crepapânsa, (*)

                                   e pròpia a chi ch’a n’ fà mai gnēnt

                                       vîn d’ butìglia e pân d’ furmēnt, (**)

e pr’i purîn ch’i’ han lavurâ

pân d’mestûra e vîn turciâ.

                                Pr’ i fiacûn ch’i’ ên in pultrûna,

                             piöv o nèv, tempèsta o trûna,

      chi mia andâr sèmper pu’ fôrt

 per mantgnîr sti becamôrt.

[Per essere sempre con la maggioranza a loro cappelletti a crepapancia, e proprio a coloro che non lavorano mai, vino di bottiglia e pane bianco di grano, e per i poveracci che hanno lavorato pane di mistura e vino torchiato. Per i fiacconi che stanno in poltrona, sia che piova, che nevichi, che grandini o tuoni, qui bisogna lavorare sempre più intensamente per mantenere questi beccamorti].

 La schola cantorum. Siamo nel 1935. Don Battista ha pensato di rinnovare il coro della parrocchia. Affida al confratello Don Vittore la preparazione musicale del gruppo cui aderiscono quasi tutti i parrocchiani, giovani e meno giovani. Il fatto desta scalpore al punto che

A Vilabêrs al dì d’incö

                             a n’ s’ pârla pu’ né d’ vàchi né d’ bö,

                               né d’ sapâr, né d’ vangâr:

                                      i’ n’ pârli âter che d’ cantâr!

[Oggi a Villaberza non si parla più di mucche, di buoi, di zappare, di vangare: non si parla d’altro che di cantare].

Ma trova ugualmente la maniera di dire male di tutti, uno per uno, calcando la mano sul fatto che sono duri di comprendonio. Per concludere poi che, per quelle persone, è più utile andare a lavorare i campi:

       Stē mo’ a ca’, andê a lavurâr

e n’ gnî mia chì a cantâr.

                                  Punsê la música, punsê i lìber

                                           s’i’ vrî ch’ fnìsa al mùnd ad rìder.

Per fâr música, (îv capî?)

bsùgna êser istruî!

              A n’ gh' völ mia di mamalúch

cuma i sî vujêter tú-c!

[Statevene a casa, andate (nei campi) a lavorare e non venite più qui a cantare. Lasciate la musica, posate i libri se volete che il mondo smetta di ridere. Per fare musica (lo avete capito?) bisogna essere istruiti, e non essere dei mammalucchi come siete tutti voi].

 NOTE

(5)Tmarulâdi = rattoppate. Il tmaröl era una pezza di cuoio o vacchetta che si sovrapponeva ad una lacerazione della tomaia (in dialetto tmâra), quasi sempre di forma circolare, applicato mediante cucitura con spago.

(*) I cappelletti si mangiavano solo una volta all’anno e rappresentavano il cibo dei benestanti.  Al punto che, in certi luoghi, venivano anche definiti La giànda d’i’ prêt, con quello sfondo di cinico anticlericalismo che equiparava alcuni preti (quelli con molte “possioni”) ai maiali, e i cappelletti diventavano la loro ghianda per ingrassare.

(**) Vîn d’ butìglia = vino buono, vino scelto. Nelle famiglie contadine si facevano tre categorie di vini: il Torchiato (turciâ), ricavato aggiungendo acqua alle vinacce e poi passandole al torchio; il vino normale, che si conservava nelle botti, e il vino buono, conservato nel barile speciale (Vasèl dal vîn bûn), oppure in bottiglia.

Il pane definito bianco (Pân d’ farîna) era presente solo alla tavola dei signori. Per gli altri c’era il pane di grano ma setacciato in modo che un poco di crusca restasse nella farina (pân scûr). Per i più poveri, per i quali il grano non bastava a coprire tutto l’anno, si mescolavano altri cereali (Mistûra) per allungare la durata della farina. Stiamo parlando del periodo fino alla seconda guerra e poco dopo.