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Nel settimo mese, il diciassettesimo giorno del mese, l’arca si fermò sulle montagne di Ararat (Gen 8:4)

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Ararat
Ararat

Non stupisce che questo monte, alto più di cinquemila metri, sia elemento fondamentale nella storia di tutte e tre le religioni abramitiche. Come il monte Fuji in Giappone, già da lontano, riesce ad infondere immediatamente un’aurea di sacralità oltre che di inviolabilità.

A pochi chilometri dalla montagna quattro paesi diversi, quattro culture millenarie differenti.

Terre di confine oscillanti tra persiani, greci e romani, momento di incontro e scontro tra occidente e medio e lontano oriente. Strade di passaggio antichissime che guidavano le spezie e le sete preziose in Europa, fino a pochi anni fa frontiera tra unione sovietica e alleanza atlantica.

C’è chi racconta che l’arca di Noè sia ancora su questi crinali, da qualche parte là in cima, e non mancano spedizioni che, ancora oggi, ne cercano le sue tracce.

Ma il monte Ararat è geograficamente situato nell’altopiano del Kurdistan turco, regione complessa, con vicende storico politiche che hanno lasciato ferite difficili da rimarginare.

Quello che attualmente si percepisce è una territorio colpito da estrema povertà.

Le steppe brulle battute dal vento offrono paesaggi misteriosi e seducenti, chilometri di strade che sembra portino verso l’orizzonte.

Sporadicamente incrociamo qualche auto, più di frequente vecchi carri trainati da lenti trattori che trasportano fieno o paglia. A quasi duemila metri l’aria fresca e rarefatta si mescola con la violenza del sole facendo queste terre un posto inospitale. E’ proprio guidando su larghe strisce di asfalto-sorprendentemente ben tenute- che iniziamo ad intravvedere, nella foschia della sera, il monte Ararat.

Lungo il percorso, a pochi chilometri dall’Iran, ci fermiamo per una visita al palazzo di Ishak Pasha.

palazzo di Ishak Pasha
palazzo di Ishak Pasha

Costruito nel 1685 in uno scenario leggendario, il palazzo è un esplosione di arte turco-islamica ed include una moschea, ricche sale per i ricevimenti e diversi harem e hamam.

Le decorazioni, gli elementi architettonici, le muquarnas, i motivi vegetali e floreali sulle porte fanno di questo luogo un posto fiabesco. Con un crinale roccioso come sfondo e la sua posizione che domina la vallata, questo posto doveva essere l’ambientazione perfetta per i racconti di “Mille e una Notte”.

Dirigendoci verso nord il profilo dell’Ararat si fa sempre più nitido e dopo pochi chilometri la montagna sacra è di fronte a noi.

Queste terre erano una volta abitate dall’antichissimo popolo degli armeni.

Lo Stato armeno, che dista pochi chilometri da qui, non ha relazioni diplomatiche con la Turchia per ragioni che scopriremo in seguito e i posti di accesso via terra sono chiusi.

Sulle strada incrociamo mandrie di vacche al pascolo vigilate da bambini che si divertono a frustarle per farsi ubbidire. Greggi di pecore ci attraversano di frequente il cammino. Per centinaia di chilometri il paesaggio è interrotto solo da qualche capanna o piccoli villaggi.

La povertà è lampante ma vissuta con grande dignità.

Nelle città come Kars e Doğubeyazit uomini seduti su bassi sgabelli sui marciapiedi,

impegnati a sorseggiare chai, il te nero turco, ci osservano e sorridono incuriositi.

Fuori dai centri abitati, nelle campagne di alta quota, nei campi coltivati a grano vengono ancora utilizzati i cavalli per i lavori agricoli.

Nelle aride pianure a poche decine di chilometri da Kars arriviamo ad Ani, antica capitale armena oggi in territorio turco.

Ani, Turchia
Ani, Turchia

La città dalle mille e uno chiese, dai centomila abitanti, cosi’ fiorente durante il medioevo da fare concorrenza a Costantinopoli, oggi giace in stato di abbandono totale. All‘ingresso, accanto ad un pericolante chiosco che vende bibite e frutta, ci sono stalle, capanne e animali.

Attraversando le mura di Ani una distesa che fa percepire l’estensione della città, durante i suoi secoli d’oro, accoglie i visitatori. Non c’è ombra turisti, solo sporadicamente s’incontra qualcuno.

Come degli Schliemann improvvisati, ci avventuriamo tra le rovine di chiese millenarie lasciate completamente incustodite. Reperti, capitelli, bassorilievi giacciono per terra in balia dei vandali o ancora peggio dei ladri. La Chiesa del Redentore a pianta circolare, disegno unico per i suoi tempi, una volta custode di un frammento della croce di Cristo, è crollata esattamente a metà dopo che un fulmine la colpi’ nel 1955. La chiesa di San Gregorio costruita nel 1215, è in condizioni critiche e le suoi cicli di decorazioni ad affresco (raro per una chiesa armena) sono in buona parte rovinati dai graffiti di qualche scellerato.

Ani è un posto magico, romantico e decadente, che fa sentire turisti ottocenteschi, passeggiare in questo altopiano a quasi duemila lascia incantati ed amareggiati. Delle piazze, dei palazzi della fiorente città oggi non rimane che polvere.

Nonastero di Sumela
Monastero di Sumela

Riprendiamo il cammino verso nord, verso il Mar Nero, scendiamo di quota, la vegetazione diventa più verde e rigogliosa. Anche le città cambiano, più ricche e occidentalizzanti, sentiamo che stiamo tornando verso un mondo più familiare. Ci fermiamo per poche ore nel placido monastero di Sumela, che sfidando le leggi della fisica, arroccato su un monte, domina la valle.

Un autobus notturno che ci aspetta a Trebisonda, antico punto di riferimento per i marinai del Mar Nero (non a caso perdere la trebisonda è ancora oggi utilizzato nel linguaggio comune), ci porterà in a Tbilisi, in Georgia, in una notte.

Le foto del viaggio