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Il salotto letterario / Ai Santuari di Ave Govi

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Ai Santuari

San Pellegrino in Alpe (foto G. Arlotti)Due avvenimenti attesi con grande trepidazione ho vissuto negli anni tra infanzia e adolescenza, oggi del tutto disattesi dalle nuove generazioni: il pellegrinaggio a piedi a “La Preda”, Pietra di Bismantova,  e quello a “San Bianc e San Plagrin”, San Bianco e San pellegrino in Alpe.

Il primo al quale partecipai quando avevo otto-nove anni, al seguito naturalmente di mia madre, fu quello della Pietra, nella ricorrenza, il 24 giugno, della festività di San Giovanni, al quale la nostra parrocchia dedicava particolare devozione. Organizzato dal parroco, si partiva di buon’ora dal piazzale della chiesa, i portantini in testa, almeno tre che a turno reggevano il grande Crocifisso  raffigurante il Gesù di gesso inchiodato al legno, pesante e ingombrante tra la boscaglia, allorché, lasciata la provinciale nei pressi di Gatta, si prendeva la scorciatoia a “Cà d-Vanin”, casa di Giovannino, costretti ad arrampicarci per dirupi sassosi costellati di ginepri, approdando finalmente nella spianata dei castagneti di Maro, vera oasi dopo l’impervia salita. Qui giunti, i gruppi appartenenti alle varie categorie dell’Azione Cattolica, posavano i loro vessilli, i portantini la croce e, aperte le bisacce,  posavano sull’erba le provviste per una prima colazione. Oltre a qualche filone di pane e un po’ di companatico, quasi tutti avevano portato “la brasciadèla”, la ciambella, ma buona parte dei partecipanti, pur affamata, s’imponeva il digiuno, essendo in vigore il precetto che per poter fare la comunione, si dovesse esserlo dalla mezzanotte. Ad adempiere al santuario a  tale rito, erano solitamente uomini adulti, desiderosi, anche se con un certo ritardo, “ ad far la Pasqua”, ottemperando così al precetto “confessarsi almeno una volta all’anno e comunicarsi  a Pasqua”.

A differenza delle donne, dei giovani e dei bambini, ligi a confessarsi dal Don assai di frequente, essi erano piuttosto restii a farlo in  parrocchia,  impacciati  nel dover riassumere le proprie colpe, certi di essere riconosciuti. Alla grata il nostro Don, grande merito questo, non poneva mai domande imbarazzanti, né esortava a scendere in particolari, limitandosi all’ascolto. Piuttosto era solito poi soffermarsi su esortazioni e consigli, inviti alla preghiera, generando in tal modo insofferenza e impazienza di giungere all’atto di dolore finale. Lo scopo quindi del pellegrinaggio alla Pietra, era di mettersi in pari con la propria coscienza, anche se preceduto  da affermazioni e battute sfocianti, forse a loro stessa insaputa,  nel blasfemo:

“I fra jen pù spisc, senza tanti bàll. Tri Pater Ave Gloria e bèli fàtt.” ( I frati sono più spicci, senza tante storie. Tre Pater Ave Gloria e già fatto).

Quale e quanta indulgenza potessero acquistare le loro anime, non saprei dirlo; la cosa certa è che al ritorno, nella radura dei castagneti di Maro, alleggeriti dal fardello delle colpe, i brindisi spesso oltrepassavano la soglia del consentito, giungendo a casa più tardi, se non brilli, di sicuro arzilli.

Era d’obbligo acquistare al santuario “e ricordin”, il ricordino, quasi sempre coroncine o medagliette, per i più abbienti il globo con la Madonnina e la neve, da posare poi sul camino. Allorché si raggiungeva il piazzale, stremati e accaldati, ci si metteva in fila alla fontanella sgorgante dalla roccia, acqua limpida e ghiacciata, per poi recarsi in chiesa, per la messa e il disbrigo al confessionale.

Per adempiere a un qualche voto, molti si recavano al santuario scalzi, riportandone vesciche e piaghe, per sentito dire una donna affetta da una grave malattia,  vi si era recata in ginocchio, percorrendo chilometri per chiedere la grazia. Eventi purtroppo  caduti in disuso, se non gite private e con scopo ben diverso. Ma la Pietra resta un simbolo di devozione e di fede  per gli abitanti del  luogo, difficilmente cancellabile.

Più che un pellegrinaggio in senso stretto della parola, il recarsi a San Pellegrino in Alpe era una via di mezzo tra una breve vacanza e un atto di devozione, solitamente svolto in gruppo ma senza l’ausilio del Don, preceduto da accurati preparativi. Impossibilitati a poterlo svolgere in giornata, il dover pernottare fuori richiedeva una certa preparazione, e una volta giunti al Santuario, solitamente nelle prime ore del pomeriggio, si andava in cerca di un posto nel quale passare la notte, e a questo ben si prestava il “romitorio”, ovvero lo stanzone adiacente alla chiesa, sempre munito di distesa di paglia ma, ahimè, affollato. La prima volta che vi partecipai avevo dieci anni e mai prima d’ora avevo dormito fuori casa. Affidate mia sorella ed io a una donna del paese, il giorno precedente preparammo una sporta con quattro filoni di pane, altrettante frittate e un pezzo di pecorino. La corriera ci portò sino ad Asta, costretti poi tutti quanti a proseguire a piedi sulla mulattiera verso Cervarolo, costeggiando, appena oltre il borgo, il versante quasi a strapiombo sul torrente Dolo, la Torre dell’Amorotto sovrastante. Oltrepassato Civago, non trovammo che boscaglia, l’oratorio di San Geminiano così solitario e sperduto tra la macchia, da chiedersi come fosse stato possibile erigerlo in tale luogo. Ricordo che indossavo due scarponcini di vacchetta con le suole borchiate, il solo paio di scarpe che possedevo, che la sera precedente avevo ingrassato con la sugna, ma lo sfregamento del calcagno sulla tomaia coriacea e il fatto che mi andassero un po’ stretti sulla punta, superato il Passo delle Radici, fui costretta a sfilarmeli e proseguire a piedi. Come avevo visto fare sovente da mio padre al ritorno dai campi, una volta annodati insieme con le stringhe, me li misi al collo, rimanendo ben presto in coda al gruppo. Fortunatamente una del paese, previdente perché in precedenza già s’era recata al Santuario, dalla sporta tirò fuori due calzettoni di lana di pecora, robusti e infeltriti, che mi protessero come una suola la pianta dei piedi. Non so descrivere cosa mi fossi aspettata di trovare una volta giunta; ciò che ricordo con chiarezza è la penombra austera della chiesa, i due Santi mummificati e rimpiccioliti dentro l’urna di vetro, che mi trasmisero, oltre a un certo disagio, la perplessità su quella loro  scelta di vita in completa solitudine, la percezione di un’altra realtà  esulante dal comune sentire di una bambina. Di fronte al Santuario, la catena imponente delle Apuane, quel giorno semisommersa da una coltre compatta di nebbia, poi sfilacciata dal sole verso sera,  di essere giunti davvero in capo al mondo.

Pure lì si sarebbe dovuto acquistare e “ricordin”, dal momento che mia madre ci aveva fornite di qualche lira, ma la guida del gruppo, oculata e avveduta, dopo aver passato in rassegna quanto esposto, ci bloccò con:

Jen tròp car. A la Predà es coumpra mej.” (Sono troppo cari. Alla Pietra si compra meglio). E così ci accontentammo di un santino, dopo aver deposto nella cassetta delle elemosine, un piccolo obolo.

Sempre sotto alle sue direttive, ci mettemmo in fila ai confessionali, che erano parecchi, cercando di mettere insieme ipotetiche colpe, e di conseguenza fare poi la comunione.

La gà pù valor ai santuàri”, (Ha più valore ai santuari) durante il tragitto aveva affermato più volte lei, alquanto perentoria.  Il brusìo all’interno della chiesa impediva tuttavia di captare quanto veniva sussurrato, forse chiesto, da dietro la grata, e senza neppure recitare l’atto di dolore, sconsideratamente, m’alzai e uscii. Pilotati sempre dalla pioniera, in serata prendemmo posto nel “romitorio” appena in tempo, ché un nutrito gruppo proveniente dalle parti di Lucca fece irruzione, gli occhi di alcuni giovani già in cerca di eventuali ragazze con le quali scherzare. Si ammassarono in un angolo, e per buona parte della notte non fecero che chiacchierare e sghignazzare, mentre la nostra guida sottovoce ci sussurrava:

Staa atenti ai sòld”. (State attenti ai soldi).

Passai la notte insonne, la mano sul sacchettino di stoffa appeso al collo, con dentro le poche lire che riportai a casa. Non ricordo dove ci fu possibile lavarci, almeno la faccia, il mattino dopo, né dove potemmo appartarci per i bisogni. Il ritorno a piedi sino ad Asta mi parve comunque meno lungo e difficoltoso, anche se fu con grande sollievo che mi  lasciai cadere sul sedile della corriera.

Soltanto trent’anni dopo sono tornata a far visita al Santuario, percorribile la distanza con un mezzo adeguato.  Eccetto la sparizione del “romitorio”, poco se non nulla trovai mutato, come è giusto che sia per un eremo, costruito coi sassi  portati dai fedeli in segno di devozione. La fede in fondo, non necessita di grandi sfarzi.