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Alle sorgenti della Resistenza: “un concetto da arricchire”. Il caso di don Pasquino Borghi

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Due storici, Sandro Spreafico e Mirco Carrattieri, e un sacerdote, don Daniele Moretto, per un’altra tappa del cammino di riflessione su don Pasquino Borghi proposto dal gruppo di lavoro degli “Amici”, coordinato da Fiorella Ferrarini. Dopo l’avvio dell’itinerario, avvenuto il 2 marzo a Bibbiano - dove don Pasquino venne alla luce, in una famiglia di contadini mezzadri, il 26 ottobre 1903 – per il secondo incontro siamo nell’Aula magna del Seminario diocesano, la mattina di sabato 6 aprile.

L’intervento di Mirco Carrattieri, fresco di nomina a direttore generale dell’Istituto “Ferruccio Parri”, ovverosia la rete nazionale degli Istituti storici della Resistenza e dell’età contemporanea, ha lo scopo di allargare l’analisi ai tratti del cattolicesimo emiliano tra le due guerre mondiali. In particolare, lo storico mette a confronto la biografia del nostro don Borghi con quella del modenese don Elio Monari,classe 1913, anch’egli nato da una famiglia contadina, che dopo l’8 settembre 1943 s’impegnò nella Resistenza aiutando i militari sbandati, ex prigionieri alleati, ebrei e patrioti che stavano per essere deportati in Germania trovandosi a capo di un’organizzazione con collegamenti che andavano dalla Svizzera a Roma.

Nel 1944 don Elio fu costretto a lasciare Modena per rifugiarsi in montagna, a Farneta di Montefiorino, dove divenne cappellano partigiano nella “Brigata Italia” con il nome di battaglia di “Luigi”.

La sua scelta non fu approvata dal vescovoCesare Boccoleri, che gli inviò una lettera di sospensione; un provvedimento che fece male a entrambi, commenta Carrattieri.

Il 5 luglio 1944, durante un rastrellamento e negli scontri conseguenti nella piazza principale di Piandelagotti, don Elio fu catturato da due soldati tedeschi mentre usciva allo scoperto per assistere un ferito. Condotto da Pievepelago a Firenze, nella famigerata “Villa Triste”, fu torturato per diversi giorni e giustiziato dai fascisti della “Banda Carità” all’alba del 16 luglio, alle Cascine, insieme ad altri partigiani. I suoi resti furono rinvenuti solo nel 1956.

Don Monari ha ricevuto la medaglia d’oro al valore militare con questa motivazione:“Ministro di cristiana carità e patriota di sicura fede, subito dopo l’armistizio si prodigava con solerte e generosa attività nel soccorrere internati italiani e prigionieri alleati, molti ponendo in salvo ed alcuni sottraendo a morte sicura. Primo tra i cappellani di unità partigiane operanti nell’Appennino Modenese era a tutti di indimenticabile esempio, sia nel santo esercizio della sua missione, sia nei pericoli del combattimento che sempre affrontava con valore di soldato e pietà di sacerdote (…). Fra le atroci sevizie, sopportate con la fermezza dei forti, sempre incoraggiava e confortava i compagni sofferenti e li benediceva prima di avviarsi all’estremo sacrificio”.

Tante le analogie con don Borghi, ma occorre superare il localismo e andare al di là delle singole figure.

Come infatti per capire don Pasquino è importante studiare anche don Dino Torreggiani o don Domenico “Carlo” Orlandini, così – conclude Carrattieri – per inquadrare don Elio non si può prescindere dalla conoscenza di don Mario Rocchi o di don Zeno Saltini.

Di più: è necessario che la storiografia indaghi maggiormente, rispetto a quanto fatto finora, le interrelazioni tra questi sacerdoti e le molte persone non appartenenti alla Chiesa con cui essi vennero in contatto nell’esercizio del loro ministero.

La relazione di Sandro Spreafico attinge al “paradigma prezioso” della storia locale per rendere anzitutto giustizia a monsignor Eduardo Brettoni, il cui trentacinquennale episcopato è stato da taluni liquidato, con “giudizio infelicissimo”, sulla base di un solo telegramma del 1943, e che invece fu un vescovo degno di don Pasquino, così com’è vero il reciproco. Nella scelta del nome di battaglia (“Albertario”) don Borghi, ricorda lo storico, prese a modello quel don Davide Albertario, giornalista direttore dell’Osservatore Cattolico di Milano, che si trovò a moderare lo scontro tra mondo liberale e socialista seguito alla pubblicazione della Rerum Novarum.

Spreafico iscrive la parabola terrena di don Pasquino tra due punti, segnati da altrettanti documenti che ce ne offrono le chiavi interpretative. Il primo, fotografico, risale al 1922: vi si vedono una trentina di seminaristi della camerata San Francesco di Sales, con il rettore don Antonio Colli e il vicerettore don Giuseppe Farioli, ed è possibile leggervi “una prefigurazione della Chiesa storica e misterica attesa alla prova dei totalitarismi, delle seduzioni concordatarie, dell’apostasia di massa”. Il secondo documento, cartaceo, è l’ultima lettera autografa scritta da don Pasquino prima dell’arresto, indirizzata al vescovo Brettoni dalla parrocchia di Tapignola in data 27 dicembre 1943. “Non chiedo alla Eccellenza Vostra che la paterna benedizione. Ho l’impressione che stiamo tornando ai tempi delle catacombe”,annotava il mittente.

Se il nostro sacerdote fu missionario, monaco certosino, parroco e resistente, tuttavia appare evidente dalla sua testimonianza che “c’è un solo don Pasquino, non isolato, non in fuga, sempre in sintonia con la parte migliore dei cattolici reggiani, che non spezza mai il legame con la sua Chiesa”, e questo anche grazie alla statura morale e pastorale di monsignor Brettoni. In diocesi la parola “resistenza” compare per la prima volta nel 1936 e proprio in un discorso del vescovo Eduardo.

Certo, per scandagliare una Chiesa “incastrata” nel ventennio mussoliniano non si può non studiare sia il filofascismo che l’antifascismo cattolico, che convivevano e dividevano il laicato cattolico; così come si deve guardare a tutta la singolare storia di un’Azione Cattolica, prima profetica nel pronunciare il principio di incompatibilità con il fascismo, poi “castigata” dalla temperie concordataria e tuttavia capace di inventare un antifascismo coscienziale e mentale propedeutico all’esperienza politica.

A dare voce ai sentimenti e ai pensieri che albergavano nei cattolici reggiani tra le due guerre provvede il diacono Antonio Burani, che legge diverse testimonianze rese sia da laici che da sacerdoti, fra i quali monsignor Eleuterio Agostini, presente alla conferenza.

Spreafico sottolinea il forte legame che intercorreva fra don Pasquino a don Dino Torreggiani, il Servo di Dio al quale, per volontà della madre Orsola, fu consegnata la veste talare del figlio dopo la fucilazione; ad unire i due presbiteri, sostiene lo storico reggiano, è il medesimo “voto di vittima”, che pure in essi si espresse secondo modalità diverse.

Se non a una conclusione, la scrupolosa indagine di Sandro Spreafico porta a formulare una tesi importante: “Dobbiamo riprendere e arricchire il concetto di Resistenza”. Il riferimento è alla vita interna delle associazioni parrocchiali, maschili e femminili, che pur scandita dai suoi momenti metodici e ordinati seppe formare intere generazioni a un’altra scuola, critica verso le roboanti parole del regime, favorendo una quanto mai opportuna interiorizzazione.

Il prossimo appuntamento con gli “Amici di don Pasquino Borghi” si terrà sabato 15 giugno a partire dalle 10 presso la Certosa di Farneta (Lucca), che fu sede della Grande Chartreuse, perciò della casa madre dell’Ordine certosino, dal 1903 al 1940; qui, durante l’ultima fase della seconda guerra mondiale, i monaci accolsero profughi civili, ebrei e partigiani; nello stesso luogo, nella notte tra l’1 e 2 settembre 1944, fecero irruzione le truppe naziste, che nei giorni seguenti trucidarono 6 padri, 6 conversi e 32 civili. Farneta luogo altamente simbolico, dunque, in cui le riflessioni sulla scelta monacale di frate Pasquino verranno proposte da donGiuseppe Dossetti, che alle 11.30 celebrerà la santa Messa.

Anche il 6 aprile la mattinata di approfondimento confluisce nell’Eucarestia, presieduta da don Daniele Moretto, vicario episcopale, nella cripta del Seminario.

Un richiamo all’ultima “messa” di don Pasquino, che il 30 gennaio 1944 offriva tutto se stesso, e il perdono ai suoi uccisori, dando compimento al suo sacerdozio terreno per entrare in quello eterno.

(Edoardo Tincani - La Libertà)