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I racconti dell’Elda 22 / “La Grotta del Vento”

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Monte Pania

Durante l’ultima uscita ho trovato un foglietto che la pubblicizzava e ho detto col mio accompagnatore:

“Non sono mai stata dentro a una grotta, pensare che mi sarebbe piaciuto vederne una”.

Lui ha preso la palla al balzo:

“La prossima uscita la faremo lì”.

Questa volta non chiamo le mie amiche, so che loro certi percorsi non li apprezzano, ma mio nipote Riccardo accetta l’invito con entusiasmo, una gita con la nonna come quando era piccolo lo stuzzica molto. Certamente i suoi 34 anni e le molteplici esperienze sportive mi danno sicurezza e lui scherzando mi dice:

“Se in qualche punto non ce la fai, non preoccuparti ti porterò in braccio”.

Benedetti nipoti, nostra consolazione e nostra gioia, guai se non ci fossero.

Così alle nove in punto eccoci in viaggio, Gabri che fa da autista come sempre con a fianco Veronica e io e Riki dietro. Il viaggio è lungo, perciò si parla del più e del meno, di scalate, di sentieri a me sconosciuti e in mezzo qualche aneddoto che ci fa fare qualche bella risata.

Questo lo ha raccontato Gabri: Anni fa un suo amico era andato a fare un giro con una moto enduro da regolarità, fin sui Prati di Sara poi è sceso alle cascate del Lavachiello e ancora più giù, fino alla diga di Presa Alta. Discesa bellissima da togliere il fiato, ma ahimè, quando è stato il momento della risalita, si è accorto che la moto in salita non poteva superare i gradoni, perciò per non abbandonarla ha dovuta smontarla e pezzo dopo pezzo caricarla in spalla e riportarla in cima. Fatto sta che a notte alta stava ancora rimettendo i pezzi assieme al lume di una pila e della luna che lo guardava divertita.

Il grande pozzo

Superiamo ormai la conosciutissima Garfagnana, fino a Castelnuovo di Garfagnana e lì imbocchiamo una gola che costeggia un fiume, la strada è asfaltata, ma tutta curve e molto stretta, quando si incrocia una macchina bisogna fermarsi, poi di solito è l’altro autista che gentilmente fa retromarcia fino allo scanso. Bravi questi toscani, se eri in un’altra regione, dovevi scendere e fare “pari o dispari”, qui rispettano il visitatore. Come ho detto, la strada che abbiamo preso a Castelnuovo di Garfagnana è molto lunga, forse una ventina di chilometri, stretta tutta curve e, rasentando a destra le rocce in certi punti a forma di capanna, continuiamo ad inerpicarci dolcemente verso le pendici di Monte Pania costeggiando un torrente punteggiato da vari borghi antichi sulle rive, forse vecchi mulini.

Finalmente eccoci arrivati a Fornovalasco, il parcheggio è stipato, ma troviamo posto ed io e Riki arriviamo all’ingresso della grotta per chiedere informazioni. A noi va bene il percorso di un’ora, ma ci sono anche quelli da due e da tre ore, naturalmente si fanno in gruppo con guida, non sono ammessi zaini o borse, solo il telefono in tasca per fare foto. Il primo percorso è il più breve si osserveranno abbondanti secrezioni vive di diversi colori, il secondo comprende il primo più una discesa di 75 metri fino a giungere nella parte più profonda dove scorre un ruscello, il terzo invece, comprende i primi due più una risalita in verticale per circa 80 metri, poi ci sono due percorsi “avventura” attrezzati solo con scale a pioli e corde per sicure e ritorno tramite una calata nel vuoto. Ora capite perché a me bastava il primo percorso.

È presto, c’è tempo fino alle due, faremo in tempo a mangiare, l’unico ristorante è posto su un dislivello alquanto caratteristico, su una riva della strada sopra a un torrente, per arrivare ai servizi bisogna usare i freni personali tanto che la discesa è ripida. Poi troviamo un tavolo in alto nel pari sotto l’ombra invitante di grossi noccioli.

Pasto frugale come di solito facciamo noi, trota con patate, formaggi con marmellate e naturalmente gelato o crema catalana, a casa mia il pranzo finisce sempre con qualcosa di dolce ed è così anche fuori.

Percorso sull'acqua

La Grotta: finalmente con molta curiosità e un pizzico di apprensione, cominciamo la visita e la guida prima di entrare racconta la storia di questa. Già conosciuta nell’Ottocento, veniva chiamata in dialetto “Buca del Vento”, perché da un buco usciva aria fredda, vi avevano costruito sopra una piccola capanna che fungeva da frigorifero. Naturalmente c’è una spiegazione del perché di quest’aria fredda, ma andiamo oltre. Poi nei primi anni del Novecento, una bimba di quattro anni che si chiamava Betta, giocando a nascondino, si è infilata dentro a questa fessura e quando è uscita ha raccontato che dentro c’era un lungo corridoio che continuava. Allora la curiosità ha spinto i giovani ad allargare questo buco per poterci entrare e a esplorare i primi trenta metri poi, si sono fermati per paura del buio e dell’ignoto.

Nel 1929 ci furono le prime spedizioni scientifiche fatte dai speleologi fiorentini, ma si arrestarono davanti a un sifone fatto a U pensando che finisse tutto lì con un lago sotterraneo. Nel 1961, speleologi bolognesi arrivati in un momento di grande siccità, superarono il laghetto e scoprirono altri 600 metri di galleria: da allora si sono susseguite altre spedizioni fino a scoprire un percorso di circa 4.500 metri, trovando vari reperti fossili e varie ossa di esemplari di “orsi delle caverne”.

Stalattiti e stalagmiti

Entriamo e veniamo investiti da vento forte e freddo, la sua forza è stata rilevata di 40 chilometri orari, poi la guida fa scorrere alle nostre spalle un portone d’acciaio così il vento diventa meno impetuoso, scendiamo un po’ poi altra tappa, con le ossa dell’orso in una teca e un altro ricomposto in alto in piedi, enorme, che pare ci dia il benvenuto, col terrore che si legge negli occhi dei bambini che si nascondono dietro la giacca della mamma. Qui cominciano i gradini, è tutto un su e giù, si scende poi si risale dalla parte opposta, mi sembra di scalare nel ventre della montagna, circa 400 gradini larghi non più di 60 cm attrezzati con corrimano da ambo le parti e luce elettrica che illumina il cammino. Con fermate sul ponticello che attraversa un laghetto, poi ancora discesa e risalita ammirando le molteplici stalattiti e stalagmiti colorate o candide trasparenti che danno l’impressione di enormi tendaggi. Se guardi in su ti viene il capogiro dato dall’altezza di questa grotta e qualche goccia d’acqua ti cade sul viso, mentre la guida continua a raccontare in italiano e in inglese e io dico a Riki:

“Ascolta bene, poi mi spieghi, non riesco a percepire tutto”.

Lui con pazienza fa anche da interprete a questa vecchia nonna o “nonna sprint” come mi definiscono loro.

Ultima fermata sul baratro di un enorme pozzo spaventoso, non se ne scopre il fondo. Infine il ritorno per la stessa via e incontriamo un gruppo di giovani attrezzati per “l’avventura”, poi un altro gruppo che faceva il giro di tre ore. Finalmente risalutiamo lo scheletro dell’orso, si riapre il portone e ci investe la luce del giorno, aria calda e il benedetto sole.

Durante il ritorno a casa si parla molto meno che all’andata, la stanchezza si fa sentire, stanchi sì, ma soddisfatti, valeva veramente la pena di fare questa esperienza.

(Elda Zannini)

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