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I racconti dell’Elda 38 / La clausura

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Questa clausura forzata mi pesa un po’, giro da una finestra all’altra e vedo niente.

Pazza, pazza primavera, guardo da dietro i vetri le falde di neve che continuano a cadere, mi danzano davanti al viso, sembra mi vogliano prendere in giro.

Sì l’ho aspettata tutto l’inverno inutilmente e ora mi imprigiona in casa, come se non bastasse la pandemia.

Non posso uscire e passeggiare in quella specie di riva che ho attorno a casa e che continuo a chiamare pomposamente giardino e godermi lo sbocciare delle primule selvatiche, mi sembra di non averne mai viste così tante come quest’anno. Intanto lei, la neve, le ha completamente coperte, come col suo peso ha fatto inchinare i rami dei prugni e delle visciole già fioriti. Pazienza, quest’anno niente marmellate, come del resto anche l’anno scorso.

Non posso mettere il naso fuori dalla porta che la “bambasina” così veniva chiamata una volta la bora che arrivava da nord est, mi fa richiudere immediatamente tanto che soffia forte proprio da quella parte.

Mi ripeto come in una cantilena, pazienza, tanto lo sai che durerà poco e faccio appello ai miei amati proverbi di una volta:

“Cara la mi nöra campesve tant cumi la neva marsöla”.

Traduco, cara la mia nuora campaste tanto come la neve di marzo.

“E vȇu la mi nunina chi saì achsè ben dir, campésve tant cumi quèla d’avril”.

E voi la mia nonnina che sapete così ben dire campaste tanto come quella d’aprile.

Come vedete in questi mesi anche in passato poteva nevicare in primavera, lo testimoniano questi orribili, cattivi proverbi che mettono in mostra la rivalità tra suocera e nuora che forse sta nel nostro D.N.A, però ci azzeccano, perché la neve di marzo dura poco e quella d’aprile ancor meno.

Spero con tutto il cure che al giorno d’oggi non ci siano più queste incomprensioni nelle famiglie, ma se così fosse? Oh Dio! Cosa vi abbiamo mandato tanto a scuola a fare? Cosa avete imparato se non le regole del buon vivere?

Non so cosa fare, non so più cosa inventarmi non sono un’amante di tutta la merce che ci offre la televisione, una volta ascoltate le notizie (sempre quelle senza un pizzico di fantasia) e qualche bel poliziesco o romanzo ottocentesco, chiudo, non posso più godere di un po’ di sport ormai sarebbe ora di ciclismo, ma purtroppo niente da fare.

Non sapendo come passare la giornata, allora mi siedo qui e butto giù tutto quello che mi passa per la mente.

Dobbiamo stare in casa? L’avete notato anche voi come l’ho fatto io, che in questo modo si risparmia? Sì perché ogni volta che si esce bisogna mettere mano al borsellino, forse questo non farà bene all’economia del nostro Stato, ma ci fa riflettere sul nostro modo di spendere.

In questo periodo il mio pensiero vola spesso ai bambini e anche ai ragazzini con handicap, alle loro mamme, ai loro papà; non è facile tenerli in casa per così tanto tempo, lo so per esperienza, passi per una settimana al massimo due. Sono d’accordo con chi chiede per loro un permesso speciale per poter uscire almeno un’ora al giorno, naturalmente con le dovute cautele.

Non è necessario che io ve lo dica, perché già lo state facendo, cercate di organizzare il vostro tempo in modo di stare vicino a loro pazientemente, sfogliate insieme libri con bei disegni colorati e ai più piccoli raccontate le storie che vi sono scritte con le vostre parole, imparate a recitare come se foste su un palco e fate teatrino, vi seguiranno meglio. Lo facevo quando avevo i bimbi piccoli e leggevo loro a puntate la storia di Pinocchio, oppure lo faceva il padre: “Papà conta Peocio”, era il più piccolo che si arrampicava sulle ginocchia del papà e chiedeva questo, allora lui cominciava a raccontare le avventure di Pinocchio che cavalcava un asinello nel Far West, completamente inventate da lui, poi tamburellando con le dita sul tavolo di legno faceva sentire il galoppo dei banditi che arrivavano, però il racconto non finiva mai a un certo punto lo lasciava in sospeso, allora il finale lo cercavano gli stessi bambini. Sorridendo lo ricordano ancora, ora che hanno superato i 50 da un po’ e questo a me fa bene al cuore.

Per i più grandi inventate lavoretti facili, che li tengano impegnati, alle bimbe potete insegnare l’arte del cucito, saranno attratte dai vestitini per le bambole.

A proposito vi racconterò che io e una mia biscugina (la Primina), fino a diciassette anni (forse un po’ tardone) ci divertivamo a inventare vestiti per le bambole, lei arrivava a casa mia la domenica pomeriggio, arrivava da Carnola, con una valigetta piena di pezzuole e la bambola e lì chiuse in casa vicine alla macchina da cucire, prima li disegnavamo poi li confezionavamo, ed erano dei veri capolavori seguivamo la moda del momento.

Altri tempi, non c’era la televisione, non c’erano i telefonini, non c’era la libertà che i nostri nipoti hanno adesso e a loro dico, dal momento che l’avete usatela bene non buttatela via, posate un attimo quel benedetto telefono e parlate un po’ coi vostri famigliari vi farà bene sentire la vostra voce, raccontate tutto ciò che vi passa per la mente sarà un piacere ascoltarvi.

Ora però accendo il televisore voglio seguire la preghiera di Papa Francesco, mi colpisce la sua forza di volontà che lo fa arrivare claudicante sotto la pioggia, il suo discorso semplice: Siamo tutti su quella famosa barca, belli e brutti, buoni e cattivi, ricchi e poveri, questo male può colpire tutti (a pièt) e pensare che volevamo vivere sani in un pianeta ormai ammalato.

Poi la Sua preghiera intensa davanti a quel grande Crocifisso, mi colpisce molto e allora cerco e trovo, forse voi la storia la sapete già, ma voglio scriverla per i miei amici che non usano il computer, ma mi seguono, i miei racconti glieli stampano i figli o i nipoti o qualche amico per far fare loro un tuffo nel passato.

Nel 1519 un incendio nella notte, distrugge completamente una chiesa in via del Corso a Roma, intitolata a San Marcello, il mattino seguente l’intero edificio è ridotto in macerie, ma fra le rovine emerge integro il Crocefisso dell’altare maggiore ai piedi del quale arde una piccola lampada ad olio. Tre anni dopo Roma venne colpita dalla “Grande Peste” il popolo porta questo Cristo in processione, riuscendo a vincere i divieti delle autorità, comprensibilmente preoccupate per il diffondersi del contagio. Il Crocefisso viene prelevato e portato per le vie di Roma verso la Basilica di San Pietro. La processione dura 16 giorni dal 4 al 20 agosto del 1522. Man mano che si procede la peste dà segni di regressione e dunque ogni quartiere cerca di trattenere il Crocefisso il più a lungo possibile. Al termine, al momento del rientro in chiesa, la peste è del tutto cessata. Questa è la storia.

Ora veniamo ai giorni nostri, è di questi giorni la foto di Papa Francesco che si reca a piedi nella chiesa di via del Corso per pregare davanti a questa Croce. Un pellegrinaggio solitario che scuote e commuove gli animi del mondo intero, salvo la solita battuta dello stupidello di turno.

Oggi quel Crocefisso miracoloso ha lasciato la chiesa di San Marcello ed è stato posto davanti alla basilica di San Pietro e lì davanti a Lui il papa si è soffermato a lungo prima di impartire l’Indulgenza Plenaria al mondo intero.

Adesso dopo che abbiamo cantato a squarciagola, ballato sui balconi, ci siamo sbracciati alle finestre, sventolato tricolori, sbattacchiato coperchi e pentole, suonato batterie, chitarre e pifferi, uniamoci alla preghiera di questo Papa. Chi non lo sa fare stia in silenzio, il desiderio di pregare è già preghiera, ma chi lo sa fare e non ha mai smesso di farlo, preghi forte e che questa preghiera arrivi davvero da qualche parte.

 Elda Zannini (nelle foto al tempo del covid19)

 

 

 

 

 

 

 

 

 

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