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I racconti dell’Elda 45 / La trebbiatura alla Pieve

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Siamo a metà luglio; se mi guardo intorno vedo campi pieni di balloni di fieno.

Mi prende un nodo alla gola, dov’è andato a finire il frumento?

Quando ero piccola in questi giorni si vedevano campi sterminati pieni di spighe color dell’oro che si muovevano ondeggiando sospinte dal venticello estivo. Tutti i “Piani” della Pieve, ora punteggiati da tetti più o meno rossi e da un centro benessere con piscina, allora apparteneva alla Pieve e si estendeva da sotto di essa fino alla strada provinciale dove adesso si trova Arduini, poi un ruscello che scaturiva dalle falde della Pietra segnava il confine a nord e scendendo formava un piccolo stagno dove in estate durante la siccità i contadini portavano ad abbeverare il bestiame e tutti avevano il permesso di usufruire di quest’acqua.

Allora nei “Piani” c’era solo frumento e in questi giorni da lì si innalzavano canti, erano i cori dei contadini mezzadri del prete e delle tante persone che andavano a “ovra” a giornata per mietere tutto quel ben di Dio, uno intonava un canto con la sua bella voce tenorile e tutti lo seguivano anche i meno intonati, tanto laggiù nessuno ci faceva caso, in quel modo lì la fatica e il sudore che imperlava la fronte ti pesava meno.

C’erano molti uomini con la canottiera di lana di pecora, con forti braccia e larghe mani che legavano grosse mannelle di frumento e cercavano di sparpagliarsi in mezzo alle donne per aiutarle a tirare su il suo “antun” il loro pezzo.

Poi arrivavano le donne di casa con ceste piene di pane, salame, prosciutto tagliato col coltello ben affilato, pentole piene di pastasciutta per nutrire gli operai, stendevano una larga tovaglia bianca all’ombra di un gelso e tutti si riunivano per il pranzo seduti per terra e Tugnin il capofamiglia mesceva il vino nei bicchieri di latta. Lui poi era il primo a rialzarsi e tutti dietro per continuare il lavoro e i bambini coi fiaschi impagliati andavano all’Albiaccio a riempirli di acqua fresca poi facevano il giro del campo per dissetare i lavoratori. Io ero piccola per portare un fiasco, però seguivo passo, passo mio fratello e quando arrivavamo da Marino che era ancora giovane, una volta bevuto ci dava una spruzzata d’acqua sul viso e noi scappavamo con gridolini:

“Sa Marino làsa star sti ragaset.”

Era sempre Tugnin che interveniva, ma noi ci divertivamo anche così.

Qualche giorno dopo c’era la raccolta delle mannelle per legarle in covoni e arrivava dalla Pieve lo zio Alfredo col carro a quattro ruote tirato dai buoi e i covoni venivano caricati con cura con le spighe rivolte in dentro per non perderne neanche un chicco, nel frattempo i bambini e gli anziani cominciavano a spigolare nella grande piana, raccoglievano le spighe andate perse, una parte di quelle poi andavano a finire nel recinto delle galline, mentre i covoni venivano ammucchiati, sempre con cura, nell’aia vicino alle stalle, dove il più presto possibile veniva trebbiato.

Ricordo la trebbiatrice fatta funzionare dal grosso trattore con quel lungo fumaiolo che si vedeva da lontano, come si sentiva anche il suo sbuffare, mentre la lunga cinghia faceva muovere tutti gli ingranaggi.

Lì vedevi ancora gli operai che si muovevano sincronizzati ognuno al posto giusto e i bambini che continuavano a girare coi fiaschi ricoperti di giunco a dar da bere a tutti in mezzo al turbinare della polvere e del “löcco” e le donne in casa a tirare la sfoglia col mattarello e con la coltellina a tagliare montagne di tagliatelle per sfamare tutti.

La trebbiatura alla Pieve durava anche due giorni di seguito e noi seguivamo la mamma che andava a dare una mano alla zia Cleofe e alle cognate, ma durante la mietitura la mamma dava la sua “ovra” nei “Piani” con tutti gli altri e i bambini a spigolare anche loro con gli altri, poi ci lasciavano portare a casa un sacco di spighe per le nostre galline e questo ci rendeva molto orgogliosi. Invece una mia amica mi ha raccontato che anche loro con la loro nonna, non vedevano l’ora di poter spigolare nella grande piana, poi il sacchetto di chicchi ricavati in un qualche modo, lo portavano al mulino dove Raoul Capanni in cambio gli dava qualche palettata di farina, eravamo già in tempo di guerra anche se qui non era ancora arrivata ma le restrizioni erano già cominciate ed erano tante.

Altri tempi, tempi diversi più belli o più brutti? Lascio fare a voi, perché ogni tanto a me viene un po’ di nostalgia, nostalgia di lavoro di fatica ma anche di semplicità e di collaborazione.

Elda Zannini.

 

 

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