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Edoardo Tincani: “Una battuta rilassa lo spirito”

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Edoardo Tincani

L’intervista al direttore del settimanale diocesano La Libertà, autore di Battutario casa e chiesa”. “Anche nella Chiesa si può ridere di più, insieme”. Il vescovo: “Momenti di leggerezza”. L’autore non sorride su una cosa: “Sugli auguri di compleanno fatti su Facebook perché…”

 

Edoardo Tincani, direttore de La Libertà, il settimanale della nostra diocesi, ha diversi doni, oltre a una bella famiglia e una bella mente. Sa scrivere e ha un sottile senso dell’umorismo che spazia da quello inglese a quello squisitamente nostrano. Mai volgare, si capisce.

‘Battutario casa e chiesa’ è la sua ultima opera. 132 pagine pubblicate da Consulta librieprogetti. Pagine di racconti sulla sua famiglia, di editoriali scritti sul suo settimanale,  osservazioni col sorriso tra le righe sul tema casa e Chiesa. Sullo sfondo, ma non tanto, il tema del Coronavirus. Tema dominante, come dice il titolo, la battuta.

Battute non scontate, però, se si è i responsabili dell’ufficio comunicazione della Diocesi. Ma il vescovo, Massimo Camisasca, ne ha voluto invece curare la prefazione.

 

Edoardo, quale valore riconosci all’umorismo?

“Un valore costitutivo, direi. Non potrei vivere senza fare battute e senza nutrirmene. Come diceva Charlie Chaplin, l’umorismo attiva il nostro senso delle proporzioni e ci serve a non farci schiacciare dal peso della vita”.

 

Perché si può fare umorismo su temi serissimi come il Covid o... la Chiesa?

“Per il Covid penso che la risata sia terapeutica. Non mi riferisco tanto al virus, che purtroppo continua a impensierirci, ma al ‘Covid’ come periodo cupo e monotono della nostra storia, come condizione esistenziale non priva di paradossi e assurdità: l’umorismo può aiutare, credo, a tenere tutti questi aspetti insieme e a criticare in modo intelligente, lontano dalla protervia dei social. Quanto alla Chiesa, me la cavo con le prime parole del proemio della ‘Gaudium et Spes’: ‘Le gioie e le speranze, le tristezze e le angosce degli uomini d’oggi… sono pure le gioie e le speranze, le tristezze e le angosce dei discepoli di Cristo...’. La Chiesa è una grandissima esperta di umanità se si tratta di ‘com-patire’, ma la mia impressione è che sul saper ‘ridere insieme’ possa fare di più...”

 

Questo ti ha mai generato qualche problema?

“Sì, è inevitabile. È un modo di pensare che non piace ai moralisti e disturba il clericalismo, una deformazione ancora molto presente nella Chiesa. La differenza, comunque, la fa sempre il modo in cui si dicono e si scrivono le cose. Rilassare lo spirito avvicina le persone: e non mi pare poco, in un tempo che ci impone di tenere maschere e distanze”.

 

Non è facile essere umoristici. Ci sono regole o... regole da stravolgere: parole dal doppio significato, storpiature, metafore: quali sono i tuoi attrezzi del mestiere?

“Mi hanno sempre attirato i funamboli della parola, come Alessandro Bergonzoni, quel gioco intellettuale che sforna significati nascosti e divertenti, ma anche il cabaret in stile ‘Zelig’, dove protagonista è lo sketch comico. Con il tempo spero di avere maturato un mio stile personale, che per anni ho esercitato anche nelle vesti di ‘E.T. - l’extraterrestre dalla testa quadra’. La mia regola aurea è che ironia e autoironia devono andare a braccetto: ridere di se stessi non sempre ci piace, ma ci fa bene”.

 

Il vescovo Camisasca ha deciso di fare la presentazione al tuo libro...

“Un gesto di amicizia. In questi anni del suo episcopato ho condiviso con lui, oltre al lavoro nella comunicazione a servizio della Diocesi, la passione per la parola scritta, che nel 2019 è sfociata in un libro redatto insieme, ‘Di luci e di ombre’. I testi del mio ‘Battutario’ sono ovviamente diversi, sempre giornalistici, ma più scanzonati: nella sua presentazione don Massimo auspica che possano regalare ai lettori ‘momenti di leggerezza’. È esattamente ciò che mi sono proposto”.

 

Avendo letto l’incipit del Battutario è facile ritrovare lo stile di “Family man” dove raccontavi diffusamente della vita quotidiana. Anche tra le mure domestiche mantieni vivo l’umorismo?

“Tutta la prima parte del libro è un diario del 2020 che guarda al tempo sospeso che abbiamo vissuto, tra un Dpcm e l’altro, proprio dall’osservatorio di casa, con un occhio anche ai tg naturalmente. Lo stile – dici bene – rimanda volutamente a ‘Family man’: anche questo ‘Album dei riCovid’ celebra la bellezza della famiglia: penso che persino il lockdown sia stato  più sopportabile proprio perché l’abbiamo vissuto in sette. L’umorismo dà una mano anche tra le pareti domestiche: abbiamo un nostro gergo tribale, ci scambiano spesso sfottò e freddure, ogni tanto mettiamo muto il televisore e ci divertiamo a doppiare i personaggi dei film improvvisando frasi insensate. Ragazzi e ragazze di casa sono più legati a ‘meme’ e video spiritosi che girano sui telefonini, ma posso dire con soddisfazione che tutti vanno sviluppando i loro personali anticorpi alla seriosità”.

 

Su cosa non faresti mai umorismo e su cosa, invece, vorresti si potesse scherzare?

“Credo si possa fare umorismo su tutto, ma che per entrare nel contesto ‘pubblico’ sia necessaria una capacità che hanno in pochi: servono preparazione culturale e un profondo rispetto per le persone. Far ridere è un’alchimia difficile e complessa e penso che chi lo fa di mestiere oggi incontri ostacoli molto più alti che in passato. In generale – basta ad esempio guardare ai revisionismi censori che stanno colpendo film immortali, da ‘Via col vento’ a ‘Grease’ – c’è un clima più inospitale: volgarità e stereotipi razzisti, sessisti o basati sulle abilità diverse possono scatenare in un attimo leoni da tastiera, proteste di categorie e associazioni, querele temerarie. Il problema è che i social hanno trasferito in un contesto pubblico ciò che fino a ieri faceva ridere solo in privato. Forse vorrei che si imparasse a scherzare di più sull’illusione di celebrità che danno i social: continuo a considerare demenziale che milioni di utenti ricorrano a Facebook per ricordare i compleanni degli ‘amici’, per mandare auguri a comando, a cui seguono ringraziamenti precotti, in attesa di essere ricambiati…”

 

Torniamo al libro, di cui sotto pubblichiamo uno stralcio: i racconti su cosa spaziano?

“Le pagine dell’album dei ri-Covid sono state scritte quattro anni e mezzo dopo ‘Family man’: i ragazzi nel frattempo sono cresciuti, perciò qui racconto ad esempio i problemi di connessione per le ‘Dad’ simultanee o come ho vissuto la laurea estiva, online, della figlia maggiore. Nella seconda parte, che ho intitolato ‘Chiesilarante’, ci sono dei pezzi tutti umoristici incentrati sul cosiddetto mondo cattolico: ho raccolto cento battute secche sulla religione, poi ci sono uno zibaldone biblico, ‘Scherza coi santi’, ‘Risate in convento’, ‘Uscendo dal Seminario’, una hit parade coi personaggi della Scrittura… Mi sono sbizzarrito”.  (G.A.)

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Battutario Casa e Chiesa (ed. Consulta librieprogetti) con un prezzo di copertina di 13 euro, si trova in libreria e sulle piattaforme digitali, può essere richiesto anche all’editore ([email protected]) che lo spedisce gratis e alla redazione de La Libertà ([email protected]), in questo caso con sconto per gli abbonati al settimanale.

 

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UN RACCONTO DA BATTUTARIO CASA E CHIESA

Per gentile concessione dell'Autore, pubblichiamo un racconto del libro citato.

 

SGUAST FOOD

 

Il dilagare del virus ha rivoluzionato le abitudini alimentari, sia intra che extra moenia. Nelle settimane di isolamento domestico, mia moglie con l’aiuto di alcuni nostri figli ha eletto Benedetta Rossi come regina del focolare, succube di un libro di suggerimenti gastronomici che peraltro le ho regalato io; complice il surplus di tempo libero, è stata una sperimentazione continua di torte e bocconcini con cui ho preso confidenza al punto da trasformarmi in uno sformato. In cucina ero diventato un estraneo. Per il resto, a me sono rimaste in gestione solo le ricette della farmacia e il carico/scarico della lavastoviglie.

Molto più difficile è stato trovare soddisfazione con il cibo preso fuori casa. Esclusi per ragioni prudenziali i locali degli chef coronati e per motivi antidepressivi gli ordini in stile Just Eat, che stanno alla buona tavola come lo smart working sta al piacere di lavorare, abbiamo pazientemente atteso di poter consumare in esterna. Il capitolo più avvilente è quello dei buffet ai ricevimenti, condannati alla scomparsa da miseri piattini con sconsolate monoporzioni.

Andare al ristorante, invece, è diventata una delle imprese più complesse, quasi ovunque con prenotazioni obbligatorie per i posti ridotti e aperitivi imposti a base di tecnologia, come il QR Code per visualizzare il menù o la pioggia di foto digitali ai totem in sala, che ti costringono a tenere il cellulare acceso sul tavolo per tutto il tempo (ma non era maleducato?). Sarà che a me ogni nuovo programma da attivare sul telefono disinstalla un po’ dell’App tradizionale insostituibile, a cui resto quotidianamente più collegato, ossia l’Appetito.

Inoltre, per favorire il rilassamento degli avventori, occorre seguire i percorsi segnalati di entrata/uscita e far registrare i propri dati perché, come informa il titolare del censimento, se dovesse capitare qualcosa sono sempre tavoli suoi.

Finalmente si mangia, ma nei dintorni c’è sempre chi eccede in cautela. Un giorno ho visto una signora sorseggiare il vino attraverso una cannuccia che le perforava la mascherina; poi, a fine pasto, ha preso un caffè corretto con un goccio di Amuchina.

Seduti, distanziati e - a giudicare dai prezzi - anche un po’ spremuti: il cameriere mi ha gentilmente spiegato che dovendo sempre portare la protezione su metà del volto, è normale che paghi il 50% in più di coperto; deduco che se fosse stato costretto a incappucciarsi, il costo sarebbe raddoppiato. Tanto si paga “contactless”, sempre per via di essere più tracciabili. E i POS di prossima generazione saranno dotati di cartascanner, per leggerti il bancomat sparandoti al portafoglio da due metri, mentre ancora finisci di cenare.