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Nell’anniversario della morte di Aldo Moro e Peppino, un estratto curato da Dilva Attolini

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Dilva Attolini

Riceviamo e pubblichiamo un estratto del capitolo curato da Dilva Attolini "Aldo Moro e gli anni terribili, e Peppino". Questo racconto sarà parte integrante di un libro di Giovanni Ricci, colpito in famiglia dal terrorismo, e
la scrittrice Carmen Togni, che ad Aldo Moro ha dedicato cinque pubblicazioni.

Il dottor Giovanni Ricci, sociologo e politologo, è figlio dell’appuntato dei carabinieri Domenico Ricci, componente dei cinque uomini della scorta di Aldo Moro barbaramente uccisi nell’agguato. Ha fondato l’Associazione Domenico Ricci con cui promuove la memoria dei caduti di via Fani, ma anche delle altre vittime del terrorismo e dello stragismo.

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Aldo Moro e gli anni terribili, e Peppino

Lo racconto in un libro precedente, dove il protagonista del “Profumo della neve”, in giro per il mondo per lavoro, sa della morte di Aldo Moro in un luogo lontanissimo dal suo Appennino settentrionale dov’era nato. Viene a saperlo in Sicilia, nei pressi di Palermo dove era arrivato da pochi giorni per dirigere un settore di un villaggio turistico. Viene a saperlo davanti a uno splendido mare e non lontano da Cinisi, paese ultimamente noto in tutto il mondo “per amore” di un ragazzo coraggioso. Cinisi è Peppino Impastato.

Aldo Moro e Peppino Impastato per mani completamente diverse hanno subito l’onta dell’uccisione a distanza di poche ore l’uno dall’altro. Uccisi lo stesso giorno, il 9 di maggio 1978, ma in luoghi lontani geograficamente. Aldo Moro a Roma, in una strada della capitale. Il giovane Peppino Impastato, le carni deflagrate, su un tratto della ferrovia nei pressi di Cinisi, Palermo. Le Brigate Rosse hanno ucciso, duramente, Aldo Moro. La mafia, altrettanto duramente, Peppino Impastato.

Peppino forse fu ucciso più ferocemente, perché il giovane ragazzo coraggioso era stato preso di forza nella notte precedente, portato in un casolare, picchiato per ore e ore… schiaffi pugni sassi in testa… con violenza inaudita fino all’ultimo respiro. Infine legato sulle rotaie, per simulare un suicidio o la preparazione di un attentato e dilaniato da chili di esplosivo. Gli amici muniti di busta di plastica non poterono far altro che raccoglierne i brandelli tutt’intorno. Solo un piede rimase intero! Un piede, per tenacia. Un segno preciso per non interrompere il cammino di lotta intrapreso da lui, anche se ora simbolicamente con passo zoppo. Figlio di padre legato alla mafia, figlio meraviglioso, si ribellò con la tenacia dei forti.

Con alcuni amici aveva fondato una radio, Radio Aut, che parlava apertamente di mafia e del suo capo Tano, che loro chiamavano “Tano Seduto”. Quei giovani volevano combattere la Mafia a viso aperto. Peppino non poteva accettare i soprusi dentro le mura della sua stessa casa, come dovrebbero fare tutti i giovani delle famiglie mafiose. I giovani hanno la bellezza per mantenere i loro cuori puri. Il giorno seguente i giornali non diedero molto spazio alla morte di Peppino Impastato, ai più sconosciuto, perché c’era l’altra morte di cui parlare, quella di Aldo Moro, aspettata, inaspettata, incredibile.

La morte come un uragano in quella strada al Centro di Roma tra le sedi del Pci e della Dc. Non era la prima volta che il protagonista del libro si era trovato nelle vicinanze di altri fatti eclatanti, come se la storia volesse svelarsi ai suoi occhi. Per obbligarlo a guardare, riflettere, metterlo alla prova, spronandolo a interrogarsi. Per obbligarlo a valutare, a capire per non dimenticare, per non perderne mai la memoria. Si era trovato nelle vicinanze di altri fatti gravi e altamente significativi di ciò che succedeva a cavallo tra gli anni sessanta e settanta, tra frastornanti rumori e ingombranti silenzi.

Primo fatto eclatante fu la strage di Piazza Fontana. A quel tempo faceva il tassista e quel giorno il suo taxi correva nelle vie di Milano, in una grigia giornata di dicembre di tanti anni prima. Alle ore 16.37, un orario sacro nei ricordi, un boato squarciò all’improvviso l’aria. Uno scoppio così potente che gli sembrò una bomba piovuta dal cielo appena oltre la strada dove transitava. Il cuore gli sobbalzò contro il tettuccio e il respiro gli si bloccò in gola. L’auto sussultava e veniva spostata e trattenuta con il volante che gli ubbidiva a fatica. Poi il cielo scomparve tra le case, coperto da una nube di polvere. C’era solo la voglia di scappare via mentre l’angoscia turbinava intorno agli occhi. Il traffico si paralizzò in pochi minuti in un silenzio attonito, tuttavia il tassista riuscì a portare alla stazione il suo passeggero. Poco dopo seppe del terribile attentato. Era il 12 dicembre del 1969. La bomba lasciò uno squarcio sul
pavimento della Banca dell’Agricoltura di Piazza Fontana, non lontano dal Duomo. Intorno una distesa di morti e feriti in un cerchio scomposto di morte che ritornerà. L’attentato entrò simile a una scheggia impazzita tra la gente comune che non sapeva cosa pensare. Proprio ora che un popolo stanco aveva dimenticato le sofferenze della guerra che invece ritornava in forma diversa.

Poi accaddero altri tristi avvenimenti. Una finestra e la morte di Pinelli, l’arresto di Valpreda. Non ultimi la confusione, la rabbia, lo sgomento di una intera città che non poteva capire. Perché? Perché? Alla gente comune certi fatti risultano inconcepibili. In cerchi scomposti la morte ritornerà negli anni a venire, a Piazza della Loggia, sul treno Italicus, alla Stazione di Bologna, sul rapido 904. Tre stragi avvennero su treni, ma gli attentati sui treni furono
tantissimi, furono ben trentasei, 36!, fortunatamente non funzionarono come era nelle intenzioni degli attentatori.

Il secondo fatto eclatante, legato alle BR, il protagonista del libro lo sfiorò da vicino, anche se in quel preciso tempo non ne ebbe consapevolezza. Accadde nella calda estate successiva, sui monti del suo Appennino, nelle terre di Bismantova e di Matilde, e nel silenzio dei boschi. Lo racconto perché il protagonista del libro, ogni estate, ritornava per un breve periodo di vacanza ai suoi monti nella casa lungo la statale tra Casina e Felina provincia di Reggio Emilia. Ci ritornò anche nell’estate del 1970, otto mesi dopo la strage di Piazza Fontana. Gli piaceva percorrere le antiche strade del suo Appennino quando capitava, abbandonate dal traffico dopo la costruzione della nuova Strada Statale 63. Conosceva bene il Ristorante “Da Gianni” ai margini del bosco non lontano dalla sua casa. Ci passò quell’estate, entrando nel bar vuoto e silenzioso a fianco del ristornate in un giorno di agosto. Trovò mosche spiaccicate su un nastro vischioso, a penzoloni, e solo il barista. Non incontrò sconosciuti. Non poteva affatto immaginare ciò che avveniva in quel locale e nei boschi intorno, tra luci e ombre del giorno e lo scuro delle sere. Si incontravano in quel riservato pezzo di terra un gruppo di brigatisti.

Le Brigate Rosse in potenza erano già nate, ma in quegli spazi disabitati alcuni componenti si radunarono per decidere la formazione del braccio armato. Allo stragismo si venne a contrapporre il terrorismo, in nome del proletariato che tuttavia non era stato informato e non poteva capire neppure queste altre follie.

Le BR dal 1970 al 1987, negli anni definiti “di piombo” tennero in scacco l’Italia. All’inizio ferivano, gambizzavano, rapivano, poi uccisero sempre più spesso. Più di ottanta vittime oltre i ferimenti che lasciavano segni profondi, oltre i sequestri di persona e le rapine per finanziare l’organizzazione. Sembra incredibile a pensarci ora, ma per ben diciassette anni e anche più, fino all’omicidio di Marco Biagi, attraversarono il tessuto sociale uccidendo, viso a viso, uomini che non erano criminali ma dirigenti delle fabbriche e dello Stato. Uccisero magistrati, giornalisti, studiosi, amministratori, dirigenti, sindacalisti, riformisti, uomini di studio e di impegno della società civile.

Il rapimento di Aldo Moro fu l’azione che frastornò il mondo intero che rimase stupito e incredulo. I componenti del comando delle BR lo trascinarono via dall’auto che non era blindata. Rimasero nella strada due automobili e immagini desolanti. Le telecamere della vicina RAI ripresero le scene. Con le portiere bucate dai colpi, tre uomini erano riversi all’interno, un quarto steso sul selciato a braccia aperte, allargate verso il cielo lontano e immobile, mentre si diceva di un altro ferito che, trasportato in ospedale, morirà poco dopo. Rapirono Aldo Moro e uccisero i cinque uomini della scorda: Oreste Leonardi, Domenico Ricci, Raffaele Iozzino, Giulio Rivera, Francesco Zizzi. Aldo Moro fu tenuto prigioniero per 55 lunghi giorni, poi ucciso e fatto ritrovare dentro al bagagliaio di un’auto rossa abbandonata a metà strada tra la sede del Partito Comunista Italiano e la sede della Democrazia Cristiana.

Di questa vicenda si è parlato tanto, si è scritto molto, un po’ di verità sarà ormai emersa. Ma ogni volta che se ne parla, c’è qualcosa che disallinea i pensieri e una domanda deborda dalla mente e dal cuore. Perché fu ucciso Aldo Moro? Perché? E insieme a lui ci sono sempre quei cinque uomini della scorta a tenere deste le coscienze.

La decisione finale, al di là di ogni trattativa, la presero i brigatisti? Perché decisero così?
Cosa credevano di ottenere?
Trovare una spiegazione, ogni volta, risulta difficile.
Lo hanno ucciso per vanità senza sapere bene il perché, la vanità del potere?

L’immagine degli uomini della scorta è brutale, come l’uomo Aldo Moro inerme nel bagagliaio, in primo piano. Sono immagini scioccanti, crudeli, riprovevoli. Ma davvero le BR credevano che con le loro azioni violente potessero giungere a una sollevazione marxista per prendere il potere in nome del proletariato? Roba da non credere. Cosa avevano in testa? Sono stati anni terribili. Alla fine di queste storie di stragi, di terrorismo, di mafia, devo dire che il
recuperarle nella memoria tutte insieme, rende gli animi semplici terribilmente tristi. Sono accadute in tanti anni, ma a metterle insieme fanno scoppiare il cuore. Soffermarsi a scrutare e riflettere di quei tempi, anni settanta, ottanta, e guardare a quel passato vengono i brividi. Il dolore di tutte queste morti non si attutisce nel tempo.

Mi accorgo ora che l’ho raccontato in un libro precedente un po’ per caso, mentre poi, nella rielaborazione, mi sto accorgendo di quanto è importante il ricordare, anche se è ancora difficile da capire tutto il contesto. Su molti fatti non si è fatto mai chiarezza. Sulle Brigate Rosse un po’ di più. Sulle stragi sono rimasti un’infinità di misteri. Non si saprà mai, con sicurezza, chi sono stati i veri colpevoli, perché qualcosa di innominabile, di manzoniana memoria, c’è stato. Qualcosa legato a poteri forti, servizi segreti, massoneria, con bugie, depistaggi, coinvolgimenti sovra nazionali. Non si saprà mai chi sono stati i veri colpevoli di queste nefandezze stragiste. Si è capito solo che a fare paura era la guerra fredda, il comunismo sovietico, causa di tanti mali.

Quello che importa, ora, è non permettere più che certe cose possano accadere. Di governanti del passato… grazie!... basta! Vorremmo trasparenza e serietà. Non solo basta dei governanti degli anni settanta e oltre, ma anche di quelli del passato recente. Basta! Grazie! Anche nel passato recenti si dice che uomini dello Stato abbiano trattato con la mafia! Sembra fantascienza! Incredibile! Ancora?  Vorremmo una nuova primavera politica. Mai più stragi, mai più terrorismo. E mai più mafia. Ci vuole molto impegno per non fallire. La vera lotta alla mafia, a mio avviso, è cominciata proprio con Peppino Impastato, dopo di lui non si è potuto più dire che “la mafia non esiste!”

Il protagonista del mio libro impiega un po’ di tempo a capire e a rendersi conto del coraggio disperato di Peppino Impastato, dell’amore acerbo per la sua terra. Poi lo capisce. Quando una cosa si capisce, non si può più far finta di niente. Il protagonista del mio libro viene a conoscere ciò che è accaduto e vuole rendergli omaggio, al giovane meraviglioso Peppino, e va sulla sua tomba al cimitero. Come scrittrice gli indico la strada, lo obbligo a decidere. Il mio protagonista, allora, si reca al cimitero per vedere da vicino la sua tomba. Poi decide di commemorarlo con un mazzo di fiori. “Uscì fuori sul piazzale a comprarli. Poi optò per una sola rosa bianca. La più bella. La posò perlata, semplice, solitaria, linda sulla nuda tomba. Dalla parte dei piedi, si fa per dire, vicino al piede rimasto intatto. Una rosa al posto del piede mancante. Per camminare ancora lontano”. I giovani hanno la bellezza per mantenere i loro cuori puri. Perché Peppino con un piede e una rosa possa camminare ancora nel cuore della gente e fare rumore, anche zoppo, sul selciato.

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