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Elda racconta: Pasqua

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Mi ero svegliata presto col suono delle campane a festa che dalla Pieve si spandeva su tutta la vallata. Pellegrino dava sfogo alla sua fantasia con le corde legate ai piedi, alle mani e ai gomiti, un giorno mi avevano portato sul campanile per mostrarmi come faceva.

La giornata era splendida forse eravamo verso la metà di aprile, come quest’anno, perché ricordo i campi seminati a frumento che cominciavano appena a verdeggiare e le piantine spuntate da poco, si muovevano tremolando sotto una leggera brezza e davano l’impressine dell’increspatura delle onde in un mare verde. Le primule a mazzi ornavano le rive dei prati contornate da una moltitudine di pratoline punteggiate dalle margherite gialle del tarassaco e anche le violette si affacciavano alla primavera, ma ancora con un po’ di timidezza. Gli uccellini rispondevano festosi al richiamo delle campane, Gesù era risorto, tutta la natura esultava a questo richiamo.

Le campane continuavano a suonare e noi bambini scendevamo in cucina dove sul tavolo dentro a un cestino facevano bella mostra di se, tante uova colorate. Mio fratello Nilo subito allungava una mano, ma vi prendeva subito su uno schiaffetto, dato dal fratello maggiore:

“Aspetta come noi, sarà la mamma a dividerle”.

Le divisioni poi, erano così fatte, che a noi piccoli ne toccava uno a testa. Me lo tenevo ben stretto in tasca e lo accarezzavo con la mano, mentre sentivo per la strada uno scalpiccio che si avvicinava e un parlottare sommesso e più indietro qualcuno che intonava un canto “Alleluia!…Alleluia!” Erano Adolfo e mio cugino Eramo che facevano parte del coro della chiesa e con le loro voci tenorili   provavano quel canto allora i miei fratelli grandi si univano a loro con le loro voci meno potenti, ma intonatissime. I Carnolini si recavano alla “messa Grande”, il giorno di Pasqua nessuno doveva mancare, le case si svuotavano e il sagrato si riempiva, le porte della chiesa restavano spalancate, perché i fedeli dentro non ci stavano tutti.

Le campane zittivano, ma dopo un po’ di silenzio una sola ricominciava a suonare, don!…don!...era la “lönga” ancora silenzio poi più veloce “l’arciàm”, il richiamo, con le sue note avvisava le massaie ritardatarie, che era ora di levarsi il grembiule da cucina e avviarsi verso la chiesa.

La mamma con noi più piccoli seguiva quelli di Carnola, prendevamo una scorciatoia, un sentiero battuto e stretto dove si andava in fila indiana, in mezzo al frumento di “Peppo dalla Pieve” stando attenti di non calpestarne neanche un filo. Erano ancora quei tempi che i contadini rispettavano questi sentieri anche se dividevano il campo in diagonale, qui sotto la Pietra ce n’erano tanti, allora si viaggiava solo a piedi. C’era quello che dal bivio di “via Bagna” attraversava tutti i campi degli Agostini e arrivava a “casa della Zita”, c’era quello che da “ca’ di Secondo” attraversava tutto il campo del Maggiore e sbucava ai Pavoni e da lì proseguiva fino a “ca’ del Luvastrell” e poi arrivava in cima a Pietra Bassa. Il più importante però era “al Cavalèt” si trovava dalle parti del vecchio acquedotto, si chiamava così perché c’era un passaggio obbligato, in mezzo alla siepe alta che cresceva dalle parti c’erano due pali infilati in terra a breve distanza uno dall’altro con uno trasversale, scavalcavi quel “cavalletto” e ti trovavi sul sentiero che attraversava tutti i terreni dell’arciprete e sbucava alla Macchiusa. Questa scorciatoia era la più frequentata da chi arrivava dalle parti di Felina e si doveva recare al Santuario di Bismantova, loro dal cavalletto potevano proseguire fino ai “Pavoni” e sbucare sopra “ca’ di Secondo”, oppure prendere la strada comunale che passava vicino a casa nostra e andar su da “via Bagna”.

Scusate la divagazione e torniamo alla messa di Pasqua, intanto con quelli di Carnola eravamo arrivati sullo stradone della Pieve e sentivamo la campanella “al ciuchìn” che avvisava che il prete usciva da una di quelle due porte, chiuse da pesanti tende rosse che si trovavano ai lati dell’altare, precisamente entrava da destra e alla fine usciva da sinistra (pensate un po’ cosa può ricordare una bambina).

Noi entravamo facendoci largo in mezzo alle persone che gentilmente si spostavano per far passare questa madre con i suoi piccoli, lei andava direttamente nel banco dei Monzani, sapeva che lì c’era il suo posto, raccontava che loro fratelli lo avevano ereditato dalla zia Clorinda che aveva sposato Feliciano Monzani. Comunque fosse, appena arrivava le facevano posto.

Io ascoltavo come tutti questa messa solenne cantata, e come tutti   non capivo un’acca di quel che si diceva, si leggeva o si cantava, perché era tutta in latino, a parte la lunga predica di don Oreste Cilloni, che scandiva le parole con forza, guardando coi suoi occhi color del ferro, persona per persona come volesse scavarci dentro.

Finalmente le campane ricominciavano a suonare a festa e la gente usciva dalla chiesa, la messa era finita e gli uomini si riunivano sul sagrato era arrivata l’ora dello “scusìn” e le donne ne approfittavano per riunirsi in gruppetti a raccontarsi le avventure della settimana, del resto come si faceva ogni domenica all’uscita dalla messa poi qualcuna scappava di corsa, aveva il brodo che sobbolliva sul fuoco.

Anche io e Nilo tiravamo fuori il nostro uovo, conservato e accarezzato in tasca fino a quel momento, ma “Tach…” il mio si rompeva subito, mio fratello me lo carpiva e spariva fra la gente e la mia Pasqua finiva lì.

Elda Zannini

 

 

 

 

 

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