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Elda racconta: luglio

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Ecco che è arrivato anche luglio e in questo mese non ricordo che ci fosse qualche ricorrenza religiosa importante.

No mi sto sbagliando, allora era molto importante la processione penitenziale alla Madonna della Pietra, quella del due luglio.

Mi raccontavano che era un voto fatto dalla parrocchia moltissimi anni prima per aver preservato il paese dalla peste. Un’ottantina di anni fa quest’usanza era molto rispettata, allora si faceva di mattina e si concludeva lassù con la celebrazione della Santa Messa.

La gente affluiva, era finita la guerra da poco e durante il conflitto era diventata più devota. Allora poi la nostra montagna andava avanti solo coltivando qualche pezzo di terra e le persone avevano più miseria, ma anche più tempo.

Chi si portava il pranzo frugale da consumare sui tavoli della signora Lia, permettendosi un quartino di vino o sotto l’ombra degli alberi vicino alla fontana che sgorgava dalla roccia. Naturalmente i tempi sono cambiati questa processione si continua a fare, ma di sera e più o meno come anche quest’anno con “quattro gatti”, ma i giovani, dove sono finiti?

Magari avranno fatto più di duecento chilometri per arrivare in qualche affollatissima discoteca per farsi assordare le orecchie da una musica a tutto volume “de gustibus” e qui mi va di usare questo “latinorum” di mio marito, quando voleva far capire che una cosa a lui non piaceva, ma poteva piacere ad altri.

Per caso, deve scoppiare un’altra guerra per farli tornare devoti? Lasciamo perdere che è meglio.

Torniamo a questo mese, sentendo certe notizie che parlano di tonnellate di grano ucraino che non si sa dove andrà a finire, mi immergo in certi ricordi. Così torno a luglio di tantissimi anni fa, dove ora sorge il quartiere Peep e la scuola che è stata appena inaugurata, allora non c’era niente, solo un vasto terreno che apparteneva alla Pieve.

Tanto per farvi capire di cosa parlo vi dirò che questo terreno partiva da sotto alla chiesa e si spandeva fin sotto “Cà di Patino”, confinava con la “Macchiusa” e arrivava fino in fondo ai “Piani della Pieve”. Di questi tempi questa terra appariva come una distesa tutta dorata, era il mese che il frumento maturava e le spighe gonfie di grano si inchinavano al sole che le riscaldava.

Era tempo di mietitura e la mattina presto la povera gente del paese, uomini e donne, si presentavano con la falce in mano davanti a “Tugnin Giansoldati” il factotum della famiglia che era a mezzadria, lui ne sceglieva un certo numero, 15 o 16, cercava di accontentarne il più possibile, loro poi venivano pagate con colazione e pranzo abbondante, un covone di grano da portare a casa la sera e poche monete, queste soltanto agli uomini, come vedete quando ce n’era bisogno ci si accontentava di poco.

Il lavoro cominciava la mattina presto, molto prima che nascesse il sole, cominciavano a mietere questo grano a mano con la “msura” la falce messoria, tagliavano una grossa manciata di steli, poi ne giravano tre o quattro attorno ai gambi e appoggiavano questi grandi mazzi “al manèli” per terra tutti girati per lo stesso verso, con le spighe riparate dal vento dal momento che abitiamo in un posto dove questo può arrivare all‘improvviso e sembravano lunghe scale a pioli distese in mezzo allo strame.

Più tardi arrivavano le donne della famiglia con ceste di pane fresco, salumi e formaggio in abbondanza e qualche fiasco di vino, era l’ora della colazione. Tutti si asciugavano il sudore sulla fronte coi grandi fazzoletti da naso colorati rossi e bianchi e mentre mangiavano riposavano un po’, parlavano poco dovevano riempirsi la bocca in fretta. Poi ricominciavano, ma dopo la rinfrescata una donna intonava un canto e tutti la seguivano, anche se le voci non erano
armoniose come quelle del “Coro Bismantova” era un piacere sentire questo canto che risuonava in tutta la vallata.

Noi bambini ci mandavano alla fontana “dell’Albiaccio” a sciacquare bene e riempire di acqua fresca i fiaschi da vino
vuotati, poi passavamo in mezzo a questi lavoratori per dissetarli e tutti bevevano a “col” attaccandosi al collo di vetro, mentre nostra madre mieteva in mezzo a loro.

Mietere, sì che era ginnastica, altro che palestra, ti dovevi piegare fino a terra per tagliare i gambi poi ti rialzavi per legarli e posarli di nuovo in terra, per più di mille volte in un giorno. Quando la campana avvertiva che era mezzogiorno tutti si rialzavano e salivano alla Pieve, dove nella grande e fresca cucina trovavano un lungo tavolo apparecchiato, un piatto di minestra fumante e naturalmente pane appena sfornato, salumi e formaggio in abbondanza. Tutti mangiavano in silenzio, poche parole e qualche sorriso alla cuoca che ripassava a riempire una
seconda volta il piatto e noi bambini seduti sui gradini della porta.

Poi un po’ di riposo fra chiacchiere e qualche barzelletta, ma quando “Tugnin” si rialzava, tutti tornavano al lavoro fin che non calava il sole. Quelli della famiglia invece raccoglievano le mannelle e le riunivano in covoni che caricavano sul carro con quattro ruote, tirato da due buoi e li ammucchiavano al riparo sotto il grande portico dove aspettavano il grande giorno della trebbiatura.

Come vi dicevo allora sotto la Pieve, era tutta una distesa di terreno coltivato, pochissimi alberi sotto la chiesa e nient’altro fin in fondo ai “Piani”. Dove ora c’è la piscina, c’era uno stagno che raccoglieva le acque che scendevano dalle sorgenti sotto la Pietra e in estate chi ne aveva necessità poteva portarci ad abbeverare le sue bestie, l’acqua è sempre stata un bene comune. Poi più sulla sinistra sorgevano le rovine del “Cimitero vecchio” e per noi bambini era una grande avventura scalare il muretto ormai in rovina e curiosare fra le vecchie tombe. Io poi fin d’allora amante
dei fiori, potevo ammirare cespugli di giaggioli “Spadun” fioriti con le loro corolle blu, moltissime pervinche azzurre che si arrampicavano su per i muri diroccati, calendule arancioni e tanti vellutini “i Gasan”, ricordo che li guardavo, ma non mi sarei mai permessa di raccoglierne uno, per me sarebbe stato un sacrilegio in mezzo a quelle tombe abbandonate da anni, qualche croce nera con la scritta in bianco ormai sbiadita dal tempo, qualche lapide bianca, storta o caduta in terra e piccoli cippi di cemento, numerati. Per noi bambini avventurarci fin là, chissà perché, era una dimostrazione di coraggio.

Vi ho raccontato della Pieve, ma non era l’unico posto coltivato a grano, c’era la “Cesura” appartenente agli Agostini di Bagnolo di Sopra. Questo terreno partiva da sotto la pineta di Monte Bagnolo, scendeva fino al Dorgola e risaliva fin sotto la Pietra. Anche lì nessuna casa e non esisteva ancora viale Enzo Bagnoli, perciò grandi pezzi seminati a grano. Poi tanti altri terreni dorati si scorgevano verso Terrasanta, Campolungo, Berzana ecc.

Il cambiamento è arrivato con le costruzioni e poi i contadini hanno preferito investire i loro terreni in altro modo e io auguro loro di non dover tornare ai vecchi tempi.

Elda Zannini