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Elda racconta: Gennaio

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“Al prém ed l’an e l’epifanéa tȇȗti al festi al portne véa”

Capodanno e l’epifania tutte le feste portano via, noi ascoltavamo uno dei tanti proverbi che la mamma sciorinava giornalmente e allungavamo un po’ il muso, significava fine delle vacanze, ritorno a scuola, ritorno ai nostri doveri giornalieri, che avevamo abbandonato in quel periodo, perciò tiravamo fuori i quaderni lascati inoperosi per parecchi giorni e ci davamo da fare per eseguire in fretta e furia i famosi compiti delle vacanze completamente dimenticati.

Poi la mamma ci incoraggiava con un altro proverbio:

“San Fabian e san Bastian i glià rciapne per la man”

San Fabiano e san Sebastiano le riprendono per la mano, questi santi venivano festeggiati verso la fine di gennaio e riportavano le feste del carnevale, allora ci rincuoravamo pensando che poi ci aspettava un altro periodo di divertitimento con le maschere.

A gennaio di solito si “ammazzava” il maiale, arrivavano i norcini da Rovina e io quel mattino lì mi svegliavo di soprassalto, erano le grida del maiale e degli uomini che lo prendevano, lo sdraiavano e uccidevano con una stilettata alla gola. Allora mettevo la testa sotto il cuscino, mi tappavo le orecchie con le dita per non sentire gli ultimi spasimi della povera bestia e singhiozzavo forte.

Quando tutto finiva guardavo da uno spiraglio della porta, lo avevano attaccato vicino a una trave che sporgeva dalla baracca e la mamma con una pentola raccoglieva il sangue che colava dal collo per poi usarlo per fare il “sanguinaccio”, una specie di torta dolce cotta al forno, che io mi sono sempre rifiutata di assaggiare.

Mi avvicinavo a mio padre che cercava di spiegarmi il perché di tutto questo, poi aggiungeva che tutte le parti del maiale venivano usate non veniva buttato niente, anche i peli che i norcini stavano rasando venivano usati per fabbricare i pennelli da barba.

Intanto sul “fugun” il focone bolliva un pentolone di acqua che usavano per lavarlo prima di aprirlo, e lì io scappavo perché mi veniva l’impeto del vomito.

I norcini si insediavano in casa nostra per due o tre giorni e macinavano carne, pestavano sale e pepe in gran quantità e qualche altra spezia, poi riempivano le budella lavate sotto la fonte e disinfettate con l’aceto per farne salami e cotechini, poi salavano i prosciutti e le spalle tutto sul grande tavolo di marmo bianco, che occupava quasi tutta la cucina. Quell’odore sgradevole di carne fresca si sentiva per parecchi giorni, perché dopo, tutto quel ben di Dio, (chiamiamolo pure così, anche se allora non ero di quel parere) si metteva a stagionare attaccandolo ai chiodi che sporgevano dai travetti della cucina, dove qualche mese prima c’erano state le pannocchie di granturco.

Queste erano le case di una volta dei poveri contadini della nostra montagna, poveri sì, ma il mangiare non mancava mai anche se non navigavamo nell’abbondanza. Lungo il soffitto della scala che portava nelle camere, il papà aveva costruito il granaio dove riposava il nostro grano, se ne riempiva un sacco alla volta, facendolo uscire da un buco lasciato all’inizio della scala, per portarlo in spalla fino al mulino di “Pantanin” laggiù sul fiume secchia dove le macine si muovevano con l’acqua corrente del fiume. Forse quel grano non bastava fino al prossimo raccolto, ma fino a primavera inoltrata ci arrivavamo. Poi nello “stambus” ripostiglio nel sottoscala, su una mensola stagionavano formaggini fatti col latte di capra, o misti con quello della nostra unica mucca, poi patate, fagioli e “raviòt” piselli seccati.

Dovete sapere che tutto ciò era prodotto soltanto dal lavoro della mamma e di mio fratello Nello ancora adolescente, il più grande Valdo ha sempre aiutato il papà nel suo lavoro da falegname. Noi due piccoli in gennaio non portavamo la capra al pascolo, perciò cercavamo di non disturbare i grandi, giocavamo, bisticciavamo e rifacevamo la pace tutto per conto nostro che col nostro carattere forte facevamo fatica ambedue a cedere, ma loro li lasciavamo lavorare. Poi quando finivano,”la mamma non finiva mai” se non erano troppo stanchi, ci raccontavano storie vere o inventate.

In gennaio allora arrivava tanta neve alle volte ne cadeva più di un metro, per noi era un gran divertimento, quando la notte ghiacciava, la mattina cominciavamo a scivolare giù dal “montarotto” vicino al cimitero, seduti sull’asse da bucato, che era bella liscia “altro che sciolinatura” facendo capitomboli divertenti. Più tardi arrivarono anche gli sci, costruiti dal papà, ma dovevano stare una settimana con le punte dentro un pentolone di acqua calda tenuto sulla grossa cucina economica fin che ste benedette punte non si erano rivoltate in su e noi ogni tanto controllavamo e aspettavamo con pazienza che il lavoro venisse ultimato.

Dopo la Befana, che arrivava puntualmente riempiendo la nostra calza con qualche caramella due mandarini e un cartoccio pieno di cenere e carbone, cominciavamo a disfare il presepe e a riporlo conservandolo per l’anno dopo, dentro a una cassettina di legno costruita da Nello. Questo era un lavoro che mi metteva una certa tristezza, cercavo di mettere Gesù Bambino vicino alla Madonna e a san Giuseppe e prima di chiudere la cassetta lo rincuoravo. Naturalmente finivano anche tutte le funzioni religiose infrasettimanali che la mamma ci obbligava a frequentare e si ritornava sui banchi di scuola, in quelle aule scure, tristi coi finestroni alti e appannati che non ti facevano scorgere nemmeno una striscia di cielo, lasciavano entrare quella luce bigia, che certamente non ti riscaldava. In un angolo la famosa stufa di terracotta rossa “la Becchi” che riscaldava i più fortunati che avevano il banco vicino “i soliti figli dei signorotti” noi che arrivavamo dalla campagna eravamo abituati al freddo. I raffreddori che mi prendevo in quel periodo li ricordo ancora, alle volte arrivavamo coi piedi fradici e dovevamo tenerceli tutta la mattina, poi una volta tornati a casa, io e Nilo li infilavamo dentro il forno della stufa per asciugarli e riscaldarli.

C’erano bimbe che arrivavano da Mozzola come (la contessina) Silvana Vallisneri, l’Anna Giovanelli e la Liliana Coli o da Cà del Grosso come l’Evelina e l’Agnese, poi da Casalino del Monte l’Adelma e più giù l’Argenide, da Virola la Carla Ugolotti, poi dalla Croce, la Laura “con lussazione dell’anca” tutte sempre a piedi sia che fosse bel tempo o piovesse a dirotto.

Ora apro gli occhi e torno al presente e dico una parola a voi che io qualche volta chiamo “mamme taxiste” so benissimo i sacrifici che fate per fare tutto questo, i vostri figli ancora non sanno apprezzare tutto ciò che state facendo, per loro è una cosa normale, ma un giorno siatene certe, quando tutto ciò toccherà a loro, lo ricorderanno e vi saranno riconoscenti. Forse qualcuno di loro penserà:

“Ma perché non mi ha lasciato l’opportunità di fare esperienza e andare a piedi? Magari con un gruppetto di amici, forse mi sarei divertito di più!”

Naturalmente parlo di quelli che abitano a “tre passi” dalla scuola o dalla palestra, un chilometro o poco più di strada, non è poi la fine del mondo se ben organizzato e con le dovute raccomandazioni, la più importante è quella “di non prendere passaggi da nessuno” neanche se è una persona conosciuta.

Elda Zannini

4 COMMENTS

  1. Ho apprezzato molto questo racconto che ci fa fare un tuffo nel nostro passato: un tempo molto lontano, ma chi l’ha vissuto direttamente, o attraverso il ricordo di altri, lo rivive con quelle belle pennellate che Elda ci regala; sono immagini costruite con un realismo lirico, che fa pensare a certi soggetti apparentemente strampalati del repertorio di Ligabue, ma nello stesso tempo ti suggeriscono una lettura affettuosa di qualcosa che non c’ è più e che è parte di noi . Grazie

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