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William Shakespeare e una lezione sull’amore

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La fine della vita, il dolore dell’abbandono, ma anche un messaggio per vivere bene l’amore sono il focus di questo sonetto di William Shakespeare (1564-1616).

SONNET 73

That time of year thou mayst in me behold

When yellow leaves, or none, or few, do hang

Upon those boughs which shake against the cold,

Bare ruin'd choirs, where late the sweet birds sang.

In me thou see'st the twilight of such day

As after sunset fadeth in the west,

Which by and by black night doth take away,

Death's second self, that seals up all in rest.

In me thou see'st the glowing of such fire

That on the ashes of his youth doth lie,

As the death-bed whereon it must expire,

Consum'd with that which it was nourish'd by.

This thou perceiv'st, which makes thy love more strong,

To love that well which thou must leave ere long.

SONETTO 73

In me puoi vedere quel tempo dell’anno

Quando poche foglie gialle, o nessuna, pendono

Da quei rami che sbattono contro le nude mura dei cori 

Freddi e in rovina, dove un tempo cantavano gli uccelli.

In me tu vedi il crepuscolo del giorno

Mentre scompare a ovest dopo il tramonto,

Che pian piano è portato via dalla nera notte,

L’altra identità della morte, che chiude tutto nel riposo.

In me tu vedi la luce d'un fuoco

Che giace sulle ceneri della sua giovinezza,

Come il letto di morte sul quale deve morire,

Consumato da ciò che prima lo nutriva.

E’ questo ciò che comprendi, che rende il tuo amore più forte,

Di amare bene ciò che dovrai lasciare presto.

 

Le metafore che Shakespeare usa per rappresentare la morte, l’autunno, il crepuscolo, un fuoco che muore, non sono particolarmente originali, erano al contrario comuni nella produzione poetica del tempo. Però le parole fluiscono leggere, ritmiche e musicali rendendo dolce anche la metafora più abusata. Il sonetto inglese, a differenza di quello italiano, è diviso in tre quartine ed un distico, due versi finali. Ogni quartina di questa poesia presenta una metafora, un’immagine diversa mentre il distico ci dà il messaggio conclusivo. Shakespeare si rivolge direttamente ad una persona con il pronome ‘thou’ che è l’equivalente del moderno ‘you’, tu. 

Monumento funebre a Stratford-upon-Avon

Cosa dice Shakespeare a questo ‘thou’? Gli dice che in lui, il poeta, si rispecchiano tre immagini. Nella prima quartina vediamo quel periodo dell'anno quando le foglie sono gialle, a volte completamente cadute, a volte se ne vedono poche penzolare dai rami che si scuotono nel vento, sbattendo contro le mura nude e in rovina dei cori di vecchie chiese crollate dove, quando era ancora estate, gli uccelli cantavano. Il riferimento ai “bared ruined choirs”, le mura nude e in rovina dei cori delle chiese,  ci porta al periodo storico della vita di Shakespeare: nel 1534 Enrico VIII aveva fatto diventare l’Inghilterra un paese protestante, con la conseguente abolizione degli ordini monastici e la distruzione di molte chiese. L’immagine dei rami spogli che battono sui muri crollati rappresenta l’autunno, la fine della gioia dell’estate, ma anche, storicamente, la fine di un’epoca per Shakespeare, la cui famiglia soffrì per questo cambiamento dal momento che diversi dei suoi familiari, il padre incluso, si rifiutarono di convertirsi al nuovo credo, pagandone le crudeli conseguenze.

Nella seconda quartina l’idea che il poeta si identifica con l’immagine dei versi è rafforzata dal fatto che le prime due parole sono “In me”, ciò che succederà anche per la terza quartina. A cosa si paragona ora il poeta? Al crepuscolo: in lui si può vedere la fine di un giorno che svanisce ad occidente, dopo il calare del sole, e che viene catturato, passo dopo passo, dalla nera notte che, come se fosse un’altra identità della morte, suggella tutto nel riposo, un riposo che può essere eterno. 

Nella terza quartina il poeta si paragona al brillare di un fuoco che giace sulle ceneri della sua giovinezza, ovvero di quando la legna non era ancora consumata ed il fuoco era appena stato acceso. Queste ceneri sono ora il letto di morte del fuoco stesso, mentre in precedenza, quando la legna ancora non era bruciata, erano ciò che lo alimentavano. Il fuoco viene tradito, annientato, proprio da ciò che in passato lo teneva in vita, un po’ come noi esseri umani veniamo traditi dal nostro corpo che in gioventù sostiene il nostro amore per la vita, mentre in vecchiaia ci porta alla morte, “consumati da ciò che prima ci nutriva”.

Come abbiamo detto il distico serve come conclusione, e infatti il poeta dice che le immagini delle quartine ci fanno capire qualcosa, hanno un messaggio per questo ‘thou’. Cos’è la cosa, il “that”, che la persona cui il poeta si rivolge deve imparare ad “amare bene”? L’intera poesia potrebbe essere un’esortazione ad amare sé stessi, ad amare la nostra vita finché è nelle nostre mani, una sorta di carpe diem. Tuttavia l’uso del verbo ‘leave’, lasciare, invece che un verbo come ‘lose’, perdere, fa pensare all’amore per un’altra persona. E il messaggio finale diventa un invito ben superiore ad un semplice incitamento a godere della vita finché c’è. Shakespeare esorta ad amare ‘bene’, intensamente, completamente, chi abbiamo vicino perché non sappiamo per quanto tempo ancora resterà con noi. Noi diamo per scontate le persone che condividono con noi la vita. Invece dobbiamo imparare a leggere in loro il passare del tempo, perché potremmo poi avere il rimpianto di parole non dette o abbracci non dati una volta che il tempo avrà svolto il suo compito. 

A chi indirizzava questa esortazione Shakespeare? Un nome non lo abbiamo. Shakespeare scrisse una raccolta di 154 sonetti, pubblicata per la prima volta nel 1609. Al tempo non esisteva diritto d’autore e i sonetti furono molto probabilmente pubblicati senza il suo consenso. Anche l’ordine dei sonetti probabilmente non è quello che Shakespeare avrebbe seguito. La raccolta non ebbe un successo particolare al momento della pubblicazione, tanto che, a differenza delle sue opere teatrali, non fu ristampata durante la sua vita. La raccolta divenne famosa come grande poesia d’amore nel diciannovesimo secolo perché rispondeva a gusti romantici. Ma il problema del ‘thou’, di chi fosse la persona cui ben 126 dei 154 sonetti sono dedicati perdurava e perdura tuttora. E’ così nata la figura del ‘Fair Youth’, il ‘Bel Giovane’, che potrebbe essere un mentore, un sostenitore finanziario, un amico. Ma chi era il Fair Youth? Si parla di Henry Wriothesley, terzo conte di Southampton, del giovane attore William Hughes, di William Herbert. terzo conte di Pembroke. Tutti uomini che rispecchiano l’ideale petrarchesco di bellezza: biondo, con pelle chiara, innocente, le stesse caratteristiche di bellezza dell’Inghilterra elisabettiana. Inoltre questi nomi iniziano con W.H. perché ad un fantomatico ‘W.H.’ è apparentemente dedicata la raccolta (sempre che questa dedica sia stata correttamente interpretata e non voglia invece semplicemente dire che la raccolta è la produzione dello Shakespeare stesso, ipotizzando un errore di stampa che ha trasformato W.SH. in W.H.). 

Pensare che Shakespeare fosse innamorato di un giovane uomo ha spesso messo a disagio molti lettori e critici condizionati da modelli sociali che non potevano far loro neanche ipotizzare una tale eventualità. Nel 1640 uscì addirittura una ristampa dei sonetti in cui tutti i pronomi maschili vennero trasformati in femminili. Ma l’amore che scorre dai versi è tanto profondo, sensuale e coinvolgente che è difficile pensare siano solo sintomo di amore platonico o amicizia. E’ anche vero che non conosciamo il lasso di tempo in cui i sonetti furono scritti e quindi potrebbero anche essere dedicati a più di una persona.

Ma tutte queste considerazioni sono solo la prova che spesso vogliamo inquadrare, schematizzare, imbrigliare ciò che non ne avrebbe bisogno. I sonetti sono la splendida illustrazione della crescita di un amore, con le sue gioie, le tristezze, le delusioni ed i momenti di felicità assoluta. Non ci serve altro.

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