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Langston Hughes e l’orgoglio di essere Neri

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Quando aveva appena diciassette anni Langston Hughes (1922-1967) si trovava su un treno diretto a Mexico City. Il poeta era partito da Cleveland per andare a trovare il padre che quasi non conosceva. Come tanti Afro-Americani Hughes aveva una complessa genealogia: la sua famiglia discendeva ugualmente da schiavi, proprietari di schiavi, politici bianchi e attivisti per i diritti civili. Il poeta diventerà il cantore dell’orgoglio nero, ma il padre la pensava molto diversamente. James Hughes non accettava il fatto di essere una persona di colore, detestava i Neri e si era trasferito in Messico per esserne lontano. Quando il treno attraversò il Mississippi, il giovane Hughes pensò istintivamente ad altri fiumi che avevano accompagnato la storia della sua gente e scrisse di getto questa poesia: 

The Negro Speaks of Rivers (1921)

I’ve known rivers:

I’ve known rivers ancient as the world and older than the flow of human blood in human 

     veins.

My soul has grown deep like the rivers.

I bathed in the Euphrates when dawns were young.

I built my hut near the Congo and it lulled me to sleep.

I looked upon the Nile and raised the pyramids above it.

I heard the singing of the Mississippi when Abe Lincoln went down to New Orleans, and I’ve seen 

      its muddy bosom turn all golden in the sunset.

I’ve known rivers:

Ancient, dusky rivers.

My soul has grown deep like the rivers.

Il Nero parla dei fiumi (1921)

Ho conosciuto fiumi:

Ho conosciuto fiumi antichi come il mondo e più vecchi dello scorrere di sangue umano in vene 

    umane.

La mia anima è cresciuta profonda come i fiumi.

Mi sono bagnato nell’Eufrate quando le albe erano giovani.

Ho costruito la mia capanna vicino al Congo che mi ha cullato nel sonno.

Ho guardato il Nilo ed ho innalzato le piramidi su di esso.

Ho sentito il canto del Mississippi quando Abe Lincoln scese a New Orleans, ed ho visto il suo 

     petto  fangoso diventare dorato nel tramonto.

Ho conosciuto fiumi:

Antichi, cupi fiumi.

 

La mia anima è cresciuta profonda come i fiumi.

Langston Hughes

L’anima del poeta ha la stessa profondità dell’Eufrate, del Congo, del Nilo e del Mississippi perché questi fiumi sono stati lo sfondo della storia della sua gente: l’Eufrate perché è il fiume che ha visto la nascita della civiltà all’origine del tempo, “quando le albe erano giovani”, il Congo perché il suo scorrere ha dondolato nel sonno tanti Africani quando erano liberi, Il Nilo perché ha visto la costruzione degli edifici più iconici del mondo, costruiti dagli stessi Africani che in America non sono considerati persone, e infine il Mississippi perché quando Abraham Lincoln andò nel Sud vide le sofferenze dei Neri, riecheggiate nel “canto del Mississippi”  che richiama i canti degli schiavi, e da presidente diede loro la libertà, almeno a parole. I fiumi hanno guidato le vite degli Afro-Americani, e come loro sono antichi e “dusky”, parola che oltre al significato di ‘cupo’ può anche descrivere la pelle delle persone di colore: in questo verso il popolo ed i fiumi coincidono. Nella descrizione del Mississippi c’è una luce di speranza quando il poeta dice che il “petto fangoso” del fiume “diventa dorato nel tramonto”. La fine del giorno che si fa d’oro sull’acqua porta sogni che rafforzano e confortano:

Dreams (1922)

Hold fast to dreams

For if dreams die

Life is a broken-winged bird

That cannot fly.

 

Hold fast to dreams

For when dreams go

Life is a barren field

Frozen with snow.

Sogni (1922)

Tieni stretti i sogni

Perché se i sogni muoiono

La vita è un uccello con le ali spezzate

Che non può volare.

 

Tieni stretti i sogni

Perché quando i sogni se ne vanno

La vita è un campo brullo

Gelido di neve.

Nonostante l’opposizione del padre alla sua carriera di poeta e scrittore (acconsentì a finanziare i suoi studi solo a patto che si iscrivesse ad ingegneria, facoltà che il poeta frequentò solo per un anno), Hughes divenne il primo autore di colore a sostenersi unicamente con la sua opera letteraria. Una volta stabilitosi ad Harlem, dopo molti viaggi in giro per il mondo, sentì di essere a casa. Il suo successo coincise con la ‘Harlem Renaissance’, il Rinascimento di Harlem, ovvero l’età dell’oro per la cultura nera che si sviluppò nel quartiere di Harlem, a nord di Manhattan. Dal 1910 circa fino agli anni settanta ci fu una notevole migrazione di Afro-Americani dal Sud degli Stati Uniti verso il nord in cerca di opportunità e libertà e fino alla metà degli anni trenta questo movimento nutrì il rinascimento nero. Quest’onda di persone portò ad Harlem molti scrittori ed attivisti che volevano diffondere l’orgoglio di essere neri attraverso il giornalismo, la letteratura e, soprattutto, attraverso la musica, coi nuovi ritmi blues e jazz che si ritrovano nella poesia di Hughes. Il poeta divenne il portabandiera di queste voci e i versi che seguono fanno parte di una poesia che augura un rinascimento per l’intera nazione:

Let America Be America Again (1936)

Let America be America again.

Let it be the dream it used to be.

Let it be the pioneer on the plain

Seeking a home where he himself is free.

 

(America never was America to me.)

  ………

  (There's never been equality for me,

Nor freedom in this "homeland of the free.")

 

Say, who are you that mumbles in the dark?

And who are you that draws your veil across the stars?

 

I am the poor white, fooled and pushed apart,

I am the Negro bearing slavery's scars.

I am the red man driven from the land,

I am the immigrant clutching the hope I seek—

And finding only the same old stupid plan

Of dog eat dog, of mighty crush the weak.

……… 

 O, let America be America again—

The land that never has been yet—

And yet must be—the land where every man is free.

The land that's mine—the poor man's, Indian's, Negro's, ME—

Who made America,

Whose sweat and blood, whose faith and pain,

Whose hand at the foundry, whose plow in the rain,

Must bring back our mighty dream again.

……. 

O, yes,

I say it plain,

America never was America to me,

And yet I swear this oath—

America will be!

 ………..

Che l’America sia di nuovo America (1936)

Facciamo che l’America sia di nuovo America,

Facciamo che sia il sogno che era.

Facciamo che sia il pioniere sulla prateria

Cercando una casa dove poter essere libero.

 

(L’America non è mai stata America per me)

……….

(Non c’è mai stata uguaglianza per me,

Né libertà in questa “patria dei liberi”)

 

Dite, chi siete voi che mormorate nel buio?

E chi siete voi che tirate un velo sulle stelle?

 

Io sono il povero bianco, preso in giro e spinto da parte,

Io sono il Nero che porta le cicatrici della schiavitù.

Io sono il pellerossa cacciato dalla sua terra,

Io sono il migrante che si aggrappa alla speranza che cerco -

E trova solo la stessa vecchia stupida idea 

Di cane mangia cane, dei potenti che schiacciano i deboli

…….

O, facciamo che l’America sia di nuovo America -

La terra che non è ancora mai stata -

E però deve essere - la terra dove ogni uomo è libero

La terra che è mia, del povero, dell’indiano, del Nero, la MIA -

Che ha fatto l’America

Il cui sudore e sangue, la cui fede e dolore,

La cui mano nella fonderia, il cui aratro nella pioggia,

Devono riportarci il nostro sogno potente.

…….

O, sì,

Lo dico chiaro,

L’America non è mai stata America per me, 

E tuttavia faccio questo giuramento -

L’America lo sarà!

……

L’inno all’America che non è la terra libera sognata mette insieme le voci di tutti coloro che hanno visto le loro speranze infrangersi nella realtà dolorosa dell’ingiustizia. Sono quelli che parlano sommessamente nel buio, che coprono con un velo le stelle del mito e della bandiera americana rivelando così la verità di un’utopia non realizzata. Il verso libero, le ripetizioni, il ‘call-and-response’, il botta e risposta tra due voci, richiamano i ritmi del blues, la musica più identitaria per la gente di colore. Il ritornello invece richiama incredibilmente (sarà un caso o un non voluto paradosso?) lo slogan trumpiano del ‘Make America Great Again’. Ma mentre Trump dava per scontato che l’America fosse stata grande, Hughes ci dice che questo risultato non è ancora mai stato raggiunto, e molti altri poeti lo faranno dopo di lui. Movimenti come il Black Lives Matter dovranno purtroppo constatare il ripetersi degli stessi crimini e atteggiamenti. Hughes però resterà sempre ottimista, dirà che in tutti i suoi viaggi la maggior parte delle persone incontrate erano buone persone, e nei suoi versi le accuse suonano quasi irridenti, come se fosse soprattutto stupito dall’ignoranza dei bianchi, dalla loro stupidità nel non riuscire a capire come si deve interagire tra esseri umani. Questo sentimento è chiaro nella poesia che leggete:

I, Too (1945)

I, too, sing America.

 

I am the darker brother.

They send me to eat in the kitchen

When company comes,

But I laugh,

And eat well,

And grow strong.

 

Tomorrow,

I’ll be at the table

When company comes.

Nobody’ll dare

Say to me,

“Eat in the kitchen,”

Then.

 

Besides,

They’ll see how beautiful I am

And be ashamed—

 

I, too, am America.

Anch’io (1945)

Anch’io canto l’America.

 

Io sono il fratello scuro.

Mi mandano a mangiare in cucina

Quando viene gente.

Ma io rido,

E mangio bene,

E divento forte.

 

Domani,

Sarò seduto alla tavola

Quando viene gente.

Nessuno oserà

Dirmi

“Mangia in cucina”,

Allora.

 

Inoltre,

Vedranno quanto sono bello

E si vergogneranno -

 

Anch’io sono l’America.

Hughes pensava che un poeta nero dovesse per forza affrontare il tema dell’essere Afro-Americani in America. Pensava che se un poeta nero desiderava trattare di altri temi era perché inconsciamente desiderava essere bianco e si adeguava a quella borghesia nera che vedeva la propria redenzione nel farsi il più possibile simile ai bianchi. Il personaggio della poesia è orgoglioso di ciò che è, di sapere che anche lui è l’America e che un giorno tutti si accorgeranno della sua bellezza. E’ illuminante l’immagine di questo servo nero che sa che un giorno siederà alla mensa dei padroni, i quali si vergogneranno della loro ignoranza, e ride perché sa che il futuro sarà diverso, lui lo sa ma loro no. Se anche l’ottimismo di Hughes ci pare irragionevole, visto che dopo quasi ottant’anni siamo ancora lontani dal ‘sedere tutti alla stessa tavola’, dovremmo invece soffermarci sull’ignoranza di cui il poeta accusa i bianchi, l'ignoranza di non capire come ci si rapporta tra esseri umani, perché le relazioni sono relazioni di potere e non di parità. Penso che spesso questa ignoranza, e non mi riferisco solo ai bianchi americani, si esprima soprattutto in arroganza, che dell’ignoranza è appunto sorella gemella. Noi ‘bianchi’ mostriamo spesso una grande arroganza nel rapportarci ad altre culture, valutandole attraverso le lenti della nostra che, comunque e sempre anche se spesso inconsciamente, consideriamo superiore. Resto sorpresa quando si riesce ad asserire con forza che non si è razzisti, trovo sia arrogante: lasciamo che siano ‘gli altri’ a dirlo perché è quasi impossibile riuscire a spogliarsi dei pre - giudizi che ci hanno cucito addosso da quando siamo nati. Ricordiamoci del nero di Hughes che ride perché ha capito quello che noi non siamo riusciti a capire.