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Lezione di storia sull’assedio di Sarajevo con Slobodan Fazlagić e la figlia Ela

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Martedì 4 aprile le classi quinte dell’Istituto tecnico del polo Cattaneo-Dall’Aglio hanno svolto una singolare lezione di storia con Slobodan Fazlagić e la figlia Ela, testimoni dell’assedio di Sarajevo durante il conflitto nei Balcani degli anni Novanta.

Oltre ad illustrare un quadro geopolitico del conflitto, si sono focalizzati su come si realizzi il concetto di resilienza in una città assediata: come si vive e come si resiste durante quasi quattro anni di occupazione (6 aprile 1992 - 29 febbraio 1996). L’incontro è stato organizzato dalla professoressa Simona Dolci, insegnante di inglese dell’Istituto, in collaborazione con i docenti di italiano e storia.

Slobodan ed Ela iniziano il loro dialogo, un punto di incontro tra generazioni con due sguardi diversi e complementari sulla complessa situazione storica e sociale del periodo. Ela oggi è un'insegnante e una educatrice, ha una laurea in conservazione dei beni culturali, si occupa di progetti di inclusione rivolti ai giovani e di videomaking. Slobodan è dottore di ricerca in geofisica, negli ultimi anni ha insegnato presso alcuni istituti superiori della provincia di Reggio Emilia. La sua principale area di studio e lavoro è la meteorologia, ma ha collaborato attivamente anche allo sviluppo culturale e sportivo del suo Paese. Ha vissuto a Sarajevo per tutta la durata dell’assedio e ancora oggi vi trascorre lunghi periodi. 

Slobodan introduce la sua lezione su Sarajevo dicendoci che la sua città è entrata tre volta nella storia: la prima volta nel 1914, come teatro dell’assassinio dell’arciduca Francesco Ferdinando erede al trono d’Austria, evento che come è noto diede l’avvio alla Prima guerra mondiale; la seconda volta nel 1984 con le Olimpiadi invernali, assegnate a Sarajevo in piena guerra fredda, contro ogni aspettativa e, a detta di molti commentatori, organizzate in modo impeccabile; infine nel 1992 con l’assedio più lungo della storia, durato 1425 giorni, che ha superato quello di Leningrado, di 872 giorni, ad opera delle forze tedesche, durante la seconda guerra mondiale. Prima di parlarci di questo evento che sarà il punto focale del suo intervento, Slobodan ci racconta della sua città com’era prima, prima della guerra fratricida che ha opposto i Serbi ai Bosniaci dopo che questi ultimi avevano dichiarato la loro indipendenza. Tratteggia il quadro di una città multietnica in cui nella stessa zona, a poche centinaia di metri l’una dall’altra, si possono trovare una chiesa cattolica, una chiesa ortodossa, una sinagoga e una moschea, una città in cui nessuno chiede all’altro di che nazionalità sia, si è di Sarajevo e basta, ma raffigura anche una città produttiva in cui ci sono molteplici attività, industrie, benessere, dove il livello di criminalità è così basso che i portoni dei palazzi non hanno nemmeno la serratura.

Ela commenta quegli anni sereni attraverso i suoi occhi di bambina: la certezza di appartenere ad un Paese sicuro, l’ideale della Jugoslavia unita, poi i primi segnali di una precisa ed imminente volontà di divisione su base etnica fino a quel momento incomprensibile per lei. Slobodan prosegue e ci mostra la morfologia della zona e così riusciamo a comprendere con quanta facilità l’esercito serbo abbia potuto accerchiare la città, circondata dalle montagne, e alla quale si accede solo attraverso tre passaggi. Ai primi bombardamenti gli abitanti di Sarajevo sono increduli, non è nemmeno chiaro chi li stia attaccando, il governo di Belgrado nega, ma le bombe continuano a cadere. L’attacco alla città vuole innanzitutto fiaccare il morale e la resistenza dei civili: vengono tolte luce, acqua, gas, telefono. 

Ela ricorda l’uscita dalla sua città qualche mese dopo l’inizio dell’assedio insieme alla madre e al fratello, in un convoglio che permetteva solo a donne e bambini di andarsene. Quello stesso convoglio fu preso in ostaggio per giorni dagli aggressori e poi liberato solo grazie ad uno scambio di prigionieri. Ela non può credere a ciò che vede e che sta vivendo e pensa che quella follia avrà vita breve, che la guerra finirà velocemente. Poco dopo, il precipitare degli eventi disperde ogni certezza: Sarajevo è completamente isolata dal resto del mondo e gli scontri non accennano a placarsi. La famiglia è costretta a dividersi.

In quegli anni Slobodan è un meteorologo, lavora all’Istituto meteo ma anche alla stazione televisiva di Stato e al comitato olimpico nazionale, non smetterà di lavorare fino alla fine dell’assedio: “La resilienza è anche questo, ci dice, non fermarci, non lasciarci abbattere, continuare la nostra vita”. Ma al lavoro si va a piedi, perché in città non c’è più carburante, il pericolo delle bombe è costante, ma accanto a questo se ne profila uno ancora più infido e inquietante: le sparatorie dei cecchini. Le ampie vie della città offrono un campo privilegiato per gli attacchi che arrivano dalle montagne: i proiettili possono raggiungere un obiettivo anche a grande distanza, così si inizia a correre, correre sempre, cercando di percorrere le strade a zig zag. Nelle immagini televisive del tempo Slobodan appare magrissimo, ci dice: “facevamo una dieta infallibile: mangiare poco e correre sempre!”. I punti più insidiosi della città si ricoprono della scritta “Pazi snajper”: attenzione ai cecchini! In alcuni punti vengono anche poste delle barricate per ripararsi dai colpi ma a Sarajevo si continua a morire. La morte sfiora anche Slobodan, più volte, ci racconta di quando un cecchino spara verso il pullman che lo sta portando alla stazione televisiva e muore una donna davanti a lui o ancora di quando un medico lo carica sulla sua macchina per accompagnarlo al lavoro in modo più sicuro, ma una granata esplode dietro di loro e tutti i vetri dell’auto vanno in frantumi. Eppure la vita continua: si va al lavoro, anche se si guadagnano solo due stecche di sigarette, i soldi a Sarajevo non hanno più valore, le sigarette sono invece un’importante merce di scambio, sua madre le porta al mercato e compra del cibo. Ci dice che la solidarietà è l’altra grande forza che aiuta la popolazione a resistere: chi possiede qualcosa lo divide con gli altri, chi riceve un aiuto lo dà a sua volta e così si cerca di sopravvivere in una quotidianità violata lunga quattro anni. Intanto senza mezzi non c’è più la possibilità di ricevere i dati per elaborare le previsioni del tempo, così importanti per una popolazione su cui anche il rigido inverno arriva come una calamità, ma Slobodan riesce a mettersi in contatto con un collega di Zagabria che inizia ad inviargli i dati e diventa anche un prezioso tramite con l’esterno, per le famiglie spezzate che riescono così a dare e ricevere notizie ai familiari che sono fuggiti da Sarajevo. Il racconto si snoda attraverso diversi aneddoti di una realtà inimmaginabile, orientata alla sopravvivenza ma anche alla dignità, alla resistenza, al non lasciarsi rubare la speranza. Slobodan ci racconta della sua esperienza insieme ad altri intellettuali alla guida di Radio Zid - Radio “Muro”, le cui frequenze resistono ai boati delle granate per portare tra la gente di Sarajevo musica, arte e approfondimenti culturali. Un modo, forse tra i più incisivi, per rivendicare lo spirito indomito della città e per rispondere con dignità e risolutezza all’assurda barbarie della guerra. 

Mentre ascoltiamo, scorrono le immagini e i materiali video che Ela e Slobodan hanno scelto per accompagnare il loro racconto. Ed è un racconto che ci cattura, ci porta tra quelle ragazze che trasformano le coperte offerte dall’Onu in mantelline alla moda, per sentirsi ancora donne, per cercare ancora la bellezza; siamo con quegli anziani che fanno la fila per l’acqua prima dell’alba a -17 gradi; siamo con la piccola Ela che per riuscire ad addormentarsi immagina che il rumore delle granate sia solo un temporale che poi passerà, siamo in quella città in cui l’assedio comincia lentamente ad allentarsi. Infatti, poco dopo il massacro di Srebrenica, l’intervento degli Usa nel conflitto porterà agli accordi di Dayton nel novembre 1995 e alla fine dell'assedio nel febbraio 1996. I numeri alla fine del conflitto sono freddi e brutali: 12.000 morti solo in città, di cui almeno 1600 bambini. Nelle immagini vediamo una distesa di lapidi bianche che la foto proiettata sullo schermo non riesce a contenere. Ferite e memoria si mescolano sullo sfondo di una nazione che vede la fine di una guerra ma non i contorni limpidi di una vera pace.

Slobodan ci dice che forse tutto questo racconto ci lascerà la sensazione che nessuno è mai al sicuro, ci dice che nemmeno noi siamo al sicuro, perché non sappiamo cosa accadrà domani, ma ciò che ci potrà salvare sarà solo la democrazia, il poter scegliere di vivere come desideriamo.

Le due ore che trascorriamo con Slobodan e Ela volano e suona la campanella, è l’una, molti ragazzi devono correre a prendere l’autobus, ma molti si fermano ancora per stringere la mano a Slobodan, per salutare Ela. Siamo turbati, vorremmo dire loro quanto siamo riconoscenti che siano stati con noi a raccontarci tutto questo e quanto abbiamo condiviso in queste due ore, ma riusciamo solo a guardarci commossi e forse gli sguardi dicono più delle parole.

Brunella Mailli

Simona Dolci