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Sylvia Plath e l’arte di morire

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La poesia di Sylvia Plath (Boston 1932-Londra 1963) trascina sempre con sé la tormentata biografia dell'autrice. Dopo il suo suicidio, la pubblicazione delle poesie ne fece una poetessa acclamata: quanto di questa fama fu anche dovuto all’interesse per la malattia mentale, la depressione e i difficili rapporti con gli uomini della sua vita? Il pubblico mostra spesso un interesse anche morboso, tuttavia Sylvia Plath aveva tutte le doti di una grande autrice. Iniziò a scrivere poesie all’età di otto anni e una volta adulta raggiunse un’incredibile abilità nell’uso della parola. I suoi versi appaiono quasi spogli, ma le parole scarne, levigate,  sono tanto ricche di significato da sorprendere. La sua poesia più famosa, Lady Lazarus, è un’autobiografia in versi:

Lady Lazarus, 1962

Lady Lazzaro

 

I have done it again.   

L’ho fatto di nuovo.

One year in every ten  

Un anno ogni dieci 

I manage it—

Ci riesco—

 

A sort of walking miracle, my skin   

Una specie di miracolo che cammina, la mia pelle

Bright as a Nazi lampshade,   

Luminosa come un paralume Nazista,

My right foot

Il mio piede destro

 

A paperweight,

Un fermacarte,

My face a featureless, fine   

Il mio viso un bel lino

Jew linen.

Ebreo senza lineamenti.

Cos’è che la giovane donna ha fatto di nuovo? Ancora non ce lo dice, però è qualcosa che fa ogni dieci anni: nel 1953 Plath tentò il suicidio per la prima volta. La poetessa descrive se stessa come un miracolo che cammina: allo stesso modo doveva essere apparso Lazzaro quando Gesù lo fece risorgere dal sepolcro dopo tre giorni. Plath si immagina risorta, visto che il tentativo di suicidio fallì, e si descrive come un ebreo che ha subito le atrocità di un campo di concentramento: la sua pelle è luminosa come un paralume, ma un paralume macabro, di quelli che i nazisti facevano con la pelle degli Ebrei morti; il suo piede è diventato un oggetto, un fermacarte; il suo viso è coperto dalle bende di lino che gli Ebrei usavano per fasciare i defunti e ha perso i suoi lineamenti, nascosti sotto il tessuto. Plath usa spesso alludere alle crudeltà dei Nazisti verso gli Ebrei, non solo perché pensava che il soggettivo andasse letto attraverso la storia globale, ma anche per un motivo autobiografico: il padre era un immigrato tedesco e la madre un’austriaca di seconda generazione. I rapporti col padre autoritario non furono facili, e non poterono essere risolti, visto che l’uomo morì quando la poetessa aveva otto anni. Naturalmente, la scelta di paragonarsi alle sofferenze degli Ebrei è discutibile e provocatoria, ma va letta all’interno del conflitto col genitore, che le fece scegliere il confronto più forte possibile, identificandosi con un ebreo nelle mani di un tedesco nazista. La poesia continua con il ritorno alla vita della poetessa:

Peel off the napkin   

Sfila la benda

O my enemy.   

O mio nemico.

Do I terrify?—

Sono terrificante?—

 

The nose, the eye pits, the full set of teeth?   

Il naso, le cavità degli occhi, l’intera fila di denti?

The sour breath

Il respiro guasto

Will vanish in a day.

Svanirà in un giorno.

 

Soon, soon the flesh

Presto, presto la carne

The grave cave ate will be   

Che il sepolcro ha mangiato sarà

At home on me

A casa con me

 

And I a smiling woman.   

E io una donna sorridente.

I am only thirty.

Ho solo trent’anni.

And like the cat I have nine times to die.

E come il gatto posso morire nove volte.

 

This is Number Three.   

Questa è la numero tre.

What a trash

Che sciocchezza

To annihilate each decade.

Annichilire ogni decade.

Sylvia Plath fotografata poco prima della morte

Il corpo viene sfasciato dalle bende come quello di Lazzaro: l’immagine riflette la poetessa che viene riportata alla vita dopo il tentato suicidio, ma la persona che le ridà la vita è chiamata ‘nemico’ perché ritornare non era la sua volontà. La donna chiede anche ironicamente se il suo aspetto sia terrificante, aggiungendo che presto le cavità degli occhi, il naso, i denti e la carne torneranno com’erano e lei sarà nuovamente una donna sorridente e  anche il respiro con l’odore della morte svanirà. In fondo ha solo trent’anni e, come i gatti, ha nove vite e questa è solo la numero tre. Questi versi sembrano cinici, duri, inspiegabili per chi pensa che la vita sia comunque un dono, in realtà sottintendono una grande sofferenza, la sofferenza di non poter essere in controllo del proprio corpo, perché è stata riportata in vita contro il suo volere, a differenza di Lazzaro, e la sofferenza di chi è alle prese con gli abissi della malattia mentale. Nelle strofe successive la donna si vede come esposta ad un pubblico che la scruta con curiosità malsana:

What a million filaments.   

Che milione di filamenti.

The peanut-crunching crowd   

La folla che sgranocchia noccioline

Shoves in to see

Spintona per vederli

 

Them unwrap me hand and foot—

Mentre svolgono le mie bende mani e piedi—

The big strip tease.   

Il grande spogliarello.

Gentlemen, ladies

Signori, signore

 

These are my hands   

Queste sono le mie mani

My knees.

Le mie ginocchia.

I may be skin and bone,

Posso essere pelle e ossa,

 

Nevertheless, I am the same, identical woman.   

Tuttavia, sono la stessa, identica donna.

The first time it happened I was ten.  

La prima volta che successe avevo dieci anni. 

It was an accident.

Fu un incidente.

 

The second time I meant

La seconda volta volevo

To last it out and not come back at all.   

Che fosse così e non volevo proprio ritornare.

I rocked shut

Mi rinchiusi su me stessa

 

As a seashell.

Come una conchiglia.

They had to call and call

Dovettero chiamare e chiamare

And pick the worms off me like sticky pearls.

E togliermi di dosso i vermi come perle appiccicose.

 

Sylvia Plath

Sotto file di luci, una folla come quella dei cinema, che mangia noccioline mentre si gode lo spettacolo, si accalca per guardarla intanto che viene risvegliata, come in un osceno spogliarello. La giovane donna si sente osservata, usata come un fenomeno, mentre vorrebbe forse essere invisibile. Risorgere non l’ha cambiata, è sempre la stessa, quella che è quasi morta a dieci anni per un incidente, quella che è sopravvissuta al primo tentato suicidio dieci anni dopo, quando si era chiusa su se stessa come una conchiglia serra il guscio. Dovettero chiamare ripetutamente per svegliarla, dovettero toglierle di dosso i vermi della decomposizione che la adornavano come perle appiccicose: la morte era come un gioiello, un oblio prezioso che la proteggeva. Nei versi che seguono impariamo cos'è morire:

Dying

Morire

Is an art, like everything else.   

E’ un’arte, come ogni altra cosa.

I do it exceptionally well.

Io lo faccio incredibilmente bene.

 

I do it so it feels like hell.   

Lo faccio in  modo tale che si sente da morire.

I do it so it feels real.

Lo faccio in modo tale che sembra reale.

I guess you could say I’ve a call.

Penso si potrebbe dire che ho una vocazione.

 

It’s easy enough to do it in a cell.

E’ abbastanza facile farlo in una cella.

It’s easy enough to do it and stay put.   

E’ abbastanza facile farlo e basta.

It’s the theatrical

E’ il teatrale

 

Comeback in broad day

Ritorno in pieno giorno

To the same place, the same face, the same brute   

Allo stesso posto, la stessa faccia, lo stesso grossolano

Amused shout:

Grido divertito:

 

‘A miracle!’

‘Un miracolo!’

That knocks me out.   

Che mi stende.

There is a charge

C’è un prezzo

 

For the eyeing of my scars, there is a charge   

Per guardare le mie cicatrici, c’è un prezzo

For the hearing of my heart—

Per sentire il mio cuore—

It really goes.

Batte davvero.

 

And there is a charge, a very large charge   

E c’è un prezzo, un prezzo molto alto

For a word or a touch   

Per una parola o un tocco

Or a bit of blood

O un po’ di sangue

 

Or a piece of my hair or my clothes.   

O un po’ dei  miei capelli o dei miei vestiti.

So, so, Herr Doktor.   

Così, così, Herr Doktor.

So, Herr Enemy.

Così, Herr Nemico.

 

I am your opus,

Sono il tuo opus,

I am your valuable,  

Sono il tuo oggetto di valore, 

The pure gold baby

Il puro bambino d’oro

 

That melts to a shriek.   

Che si scioglie in un grido.

I turn and burn.

Mi giro e brucio.

Do not think I underestimate your great concern.

Non pensare che io sottovaluti il tuo grande interesse.

In questi versi famosi Plath ci dice che morire è un’arte come tante altre e lei la conosce molto bene, tanto bene da sembrare una vera e propria vocazione. Se è facile farlo in una cella di prigione o di clinica psichiatrica, se è facile morire e basta, cioè morire e non tornare, quello che la poetessa non sopporta è la spettacolarizzazione della morte, il desiderio del miracolo ad ogni costo e vorrebbe che ci fosse un prezzo da pagare per chi osserva la sua resurrezione, che però nel suo caso è un ritorno al dolore, le sue cicatrici e il suo corpo di donna. Plath usa parole essenziali, dure, cesellate per esprimere quanto sia difficile mostrare agli altri la propria pena; e quanto sono veri questi versi se pensiamo a quanto spettacolo si fa della sofferenza altrui. Si rivolge al medico che l’ha risvegliata chiamandolo ‘Herr’, ovvero ‘Signore’ in tedesco, e ‘Nemico’: la figura del medico, nemico perché l’ha fatta risorgere, si confonde con quella del padre, da cui viene l’appellativo in tedesco; il conflitto col genitore la porta a vederlo come un dominatore, qualcuno che la manipola, tanto che lei è il suo ‘opus’, la sua creazione, mentre la sua individualità si scioglie nel nulla come il grido di un bambino o come se fosse nelle fiamme, altre allusioni al destino degli Ebrei, allusioni che ritroviamo nei versi che seguono:

Ash, ash—

Cenere, cenere—

You poke and stir.

Tu infilzi e rigiri.

Flesh, bone, there is nothing there—

Carne, osso, non c’è niente lì—

 

A cake of soap,   

Una saponetta,

A wedding ring,  

Una fede nuziale, 

A gold filling.

Un’otturazione d’oro.

 

Herr God, Herr Lucifer   

Herr Dio, Herr Lucifero

Beware

Attenzione

Beware.

Attenzione.

 

Out of the ash

Dalla cenere

I rise with my red hair   

Io mi alzo coi miei capelli rossi

And I eat men like air.

E mangio gli uomini come fossero aria.

Sylvia Plath coi figli

Il paragone con l’Olocausto, con la poetessa che si vede una vittima come gli Ebrei, risuona nelle parole ‘cenere’, ciò che restava dei corpi bruciati e che potevi muovere senza più trovare nulla, e nelle immagini del sapone, che i nazisti ricavavano dai cadaveri, e delle fedi nuziali che venivano rubate come le otturazioni d’oro. E ora anche dio e il demonio sono ‘Herr’, quindi nemici come il padre, come probabilmente il marito, il poeta inglese Ted Hughes, uomini che non hanno capito la sua sofferenza. La poesia si conclude con un avvertimento per tutti questi uomini: attenzione perché la poetessa potrebbe risorgere davvero, ma stavolta come la fenice, uccello dalle piume rosse a cui si allude evocando i capelli rossi, e allora avrà la forza di essere lei la dominatrice e si nutrirà di questi uomini come fossero aria.

La dura essenzialità di questi versi ci fa ritrarre, la ‘sfrontatezza’ con cui argomenti aspri come il suicidio e la malattia mentale vengono esibiti ci fa venire voglia di distogliere lo sguardo. Invece dobbiamo ammirare il coraggio di una donna che con la sua arte poetica ci fa entrare in un mondo che vorremmo a tutti i costi evitare, perché lo stigma del suicidio e della follia ci impauriscono come un virus contagioso. Non parlarne equivale a pensare che non esistano, che non ci toccano. Invece è grazie a menti brillanti, tormentate e sofferenti come quelle di Sylvia Plath che riusciamo a dirigere lo sguardo negli angoli bui della condizione umana.

 

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