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Nostalgia della neve

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Wallace Stevens

C’è una poesia di Wallace Stevens, poeta americano Premio Pulitzer nel 1955 che scriveva poesie di notte, dopo averle spesso composte al mattino mentre andava al lavoro in una società di assicurazione, chiamata The Snow Man, che, attraverso la ricchezza dei suoni consonantici,  rimanda al fruscio della neve che si posa, al crepitio dei rami gelati, allo scricchiolio dei passi sul suolo ghiacciato in un panorama invernale, alla luminosità del sole che si riflette sul bianco: immagini che il clima mutato ci obbliga ad andare a ripescare nel fondo della memoria, memoria che poi nutre la nostalgia per una stagione che pare averci abbandonato.

 

The Snow Man, 1921

L’uomo neve

One must have a mind of winter

Bisogna avere una mente per l’inverno

To regard the frost and the boughs

Per guardare la brina e i rami

Of the pine-trees crusted with snow;

Dei pini incrostati di neve,

 

And have been cold a long time

E aver sentito freddo per tanto tempo

To behold the junipers shagged with ice,

Per osservare i ginepri irsuti di ghiaccio,

The spruces rough in the distant glitter

Gli abeti ruvidi nel luccichio distante

 

Of the January sun; and not to think

Del sole di Gennaio; e non pensare

Of any misery in the sound of the wind,

Alla tristezza nel suono del vento,

In the sound of a few leaves,

Nel suono delle poche foglie,

 

Which is the sound of the land

Che è il suono della terra

Full of the same wind

Piena di questo stesso vento

That is blowing in the same bare place

Che soffia nello stesso luogo nudo

 

For the listener, who listens in the snow,

Per chi ascolta, ascolta nella neve,

And, nothing himself, beholds

E, essendo egli stesso nulla, vede

Nothing that is not there and the nothing that is.

Il nulla che non c’è e il nulla che c’è.

 

La separazione che troviamo nel titolo tra le parole  ‘Snow‘ e ‘Man‘ indica che una traduzione con ‘Uomo di neve’ sarebbe troppo semplice: questo è ‘un uomo neve’, non un comune pupazzo, ma una persona che sa comprendere la natura della neve. 

'Cacciatori nella neve', Pieter Bruegel il Vecchio

In effetti, i versi vanno oltre la descrizione di un paesaggio di fiaba, definendo il modo in cui si deve leggere la natura. Per saper capire l'inverno bisogna avere una mente, un'anima ‘d’inverno’, in sintonia con la stagione, aver sperimentato il freddo per poter guardare la natura oggettivamente,  senza caricarla delle nostre percezioni e interpretazioni. Perché si dovrebbe leggere nel suono del vento e nel fruscio delle poche foglie una qualche sensazione di tristezza? Perché vivere un panorama gelato come squallido e deserto? 

La domanda vera è quella che ci fa chiedere come si interpreta la realtà: è possibile vedere il mondo per ciò che è senza farci influenzare dalle nostre percezioni? Il gemito del vento ce lo farà paragonare ai nostri pianti, personalizzando il mondo che, però, è al di fuori di noi, che ha una vita sua e non necessita delle nostre interpretazioni? È possibile fare come l'ascoltatore degli ultimi versi, sapendo di essere egli stesso un nulla, e riuscire ad ascoltare il vento e a  guardare la meraviglia del panorama nudo, senza vedere niente che in effetti non sia lì e vedere,  invece, la nuda realtà,  il niente, per quello che è? Questo ‘niente’ di un poeta che ci appare distante e che, invece, visse intensamente una vita emotiva difficile, rappresenta, appunto, il dilemma di noi che soffriamo e ci chiediamo il perché di una natura ‘innocente’ nella sua indifferenza, la nostra pena nell'osservare un mondo che ci pare così lontano dai nostri sentimenti.

Robert Frost e Wallace Stevens, circa 1940

E, quindi, siamo capaci di guardare il mondo naturale senza vederci uno specchio dei nostri pensieri e delle nostre emozioni? O, ancora, ci è data la possibilità di conoscere il mondo indipendentemente da ciò che percepiamo, o è la percezione l’unica realtà che ci è concesso di afferrare? Interpretare la natura come fosse un nostro riflesso è estremamente comune: siamo esseri centrati su noi stessi, e quindi tendiamo a leggere il fuori da noi coi parametri che usiamo, appunto, per noi stessi.  Questa tentazione nasce anche dal timore di essere incapaci di riuscire a interpretare, e quindi controllare,  il mondo della natura, di finire nel caos e oscurità dell'ignoto. Ma, come aveva ben capito Stevens,  descrivere la natura con la lingua degli umani è incompleto e riduttivo. Accettare di essere il ‘niente’ che guarda e ascolta il ‘niente’ significa essere pronti ad accettare che tanto ci è ignoto, che siamo piccole entità in una natura per molti versi sconosciuta, che il perché definitivo di noi e dell'universo è inafferrabile. Ma significa anche che abbiamo di fronte a noi un infinito di conoscenza che dobbiamo avvicinare con umiltà e continua meraviglia.