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Storia ed economia ai tempi del Coronavirus, Lupatelli: “Niente sarà più come prima”

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Cosa è l’economia? “L’economia è il modo in cui noi organizziamo in forma sociale la produzione di beni e servizi che ci servono per sopravvivere”. E di economia ai tempi della pandemia Coronavirus parliamo con  Giampiero Lupatelli, economista e conosciuto in Appennino per essere responsabile della assistenza tecnica al progetto Aree interne. Questi concetti sono stati anticipati nella trasmissione radiofonica “Insieme a voi”, di ieri, condotta da Doris Corsini e da chi scrive, con la regia di Claudio Chierici.

Coronavirus. A che punto siamo?

“La situazione ora è preoccupante. Siamo di fronte all’ignoto. Dopo la seconda guerra mondiale l’economia non ha mai registrato un concreto rischio di caduta delle proporzioni di questa”.

Quindi che fare?

“Beh, già ora dobbiamo preoccuparci del dopo. Dopo sarà una situazione molto pesante. Le agenzie internazionali collocano tra il 5-10% la caduta del Pil mondiale, molto di più della crisi del 2008”.

E il nostro continente?

“L’Europa – risponde Lupatelli -, dopo la crisi dei debiti sovrani conosciuta nel 2011, fronteggiata dalla BCE di Mario Draghi, non ha saputo far fronte alle emergenze successive: la crisi migratoria e questa emergenza sanitaria, dimostrando la sua fragilità. I meccanismi decisionali europei si sono spostati dalle istituzioni comunitarie (Commissione e Parlamento) verso i vertici intergovernativi. E il negoziato fra Stati è stato meno generoso e meno efficace delle decisioni comuni”.

Pertanto addio Europa?

“No. Al contrario. Se nell’emergenza sanitaria siamo entrati senza Europa, dalla crisi economica che seguirà l’emergenza sanitaria ne potremo uscire solo come Europa. Di fronte al carattere globale della crisi abbiamo bisogno di essere Europa e per poter giocare ad armi pari con Stati Uniti e Cina”.

E l’Appennino, a parte le difficoltà inevitabili che avranno commercio, artigiani, turismo?

“Dal punto di vista dell’Appennino qualche preoccupazione economica la riduce il fatto che la filiera agroalimentare, che qui è estremamente importante è entrata in qualche modo in questa crisi con minore criticità. Per i prodotti agroalimentari sarà più semplice  tornare nel cuore dei consumatori mondiali di quanto non potrà essere, ad esempio, per il turismo. Paradossalmente l’Appennino per la sua maggiore semplicità è in una situazione non peggiore delle aree più forti della regione o della Lombardia”.

Il modello italiano di produzione, ha aiutato?

“No. Il modello italiano e la nostra regione ancora di più è invece molto esposto a questa crisi globale: ha una dimensione internazionale rilevante: ricordiamo la preoccupazione che sospendere la produzione comporti il rischio di essere sostituiti come fornitori dalle imprese che riforniamo di beni intermedi e di beni strumentali nei mercati internazionali, senza giungere al mercato finale”.

Perché?

“Abbiamo una forte specializzazione manifatturiera; nel Paese che è secondo in Europa solo alla Germania e ancora di più in Emilia Romagna; quasi mai però  siamo nei terminali della catena di fornitura, quelli che si rivolgono al mercato dei consumatori finali ma siamo nella parte intermedia della catena”.

Come cambieranno i consumi?

“I consumi cambieranno sicuramente. Auto e mobilità ne sono un esempio, lo è il tema dei pasti fuori casa. Tutto cambierà radicalmente. Come Italiani rischiamo più di altri di far fatica a intercettare e anticipare questa evoluzione dei consumi e a non esserne al traino”.

Ancora, perché?

“Perché siamo deboli nell’accesso diretto ai big data, quelli che registrano gli acquisti con le carte di credito, quelli dei telefonini. Abbiamo un super centro di calcolo europeo, quello per la meteorologia di Bologna, che è una risorsa importante. Ma non abbiamo piattaforme globali che producono, gestiscono e analizzano i big data. Un esempio: Big data che in Corea hanno consentito di gestire l’emergenza con il tracciamento delle persone realizzando la massima efficacia della azione preventiva contro il virus.La Corea era molto più preparata di noi a gestire la crisi, per ragioni geopolitiche sicuramente, ma anche perché in Corea si è fatto un investimento straordinario di formazione basti ricordare rispetto a noi hanno +10% di laureati tra la popolazione  adulta”.

Che fare quindi.

“Dobbiamo pensare da subito al futuro. Le nostre previsioni saranno sbagliate. Ma dobbiamo farle per poterle correggere e non restare spiazzati dagli eventi. Alle persone diciamo di tenere alta l’attenzione e di dedicare parte del tempo ad attività che tengano il pensiero vivo. Ma soprattutto dobbiamo dire alle istituzioni di dedicare una parte delle loro risorse a questo pensiero visionario e lungimirante a pensare e a progettare quello che non c’è ancora”.

Oltre all’emergenza sanitaria, allora, dobbiamo preoccuparci dell’economia.

“Come per l’aria, anche per l’economia ci rendiamo conto che è importante quando non c’è. Non si può sacrificare la salute all’economia, ma non si può sostenere che l’economia venga dopo. Proprio in questi momenti si vede quanta industria c’è a sostegno della offerta farmaceutica e biomedicale che ci consente di combattere il virus”.

Quanto tempo ci vorrà per ristabilirci?

“Gli scenari sono aperti. Ci auguriamo che, per noi che viviamo nell’emisfero nord del mondo, l’estate possa abbattere i rischi di contagio per ragioni climatiche, e speriamo che all’estate ci si possa arrivare avendo messo in piedi risorse più efficaci per la prevenzione e la cura. Il vaccino resta la risposta fondamentale, ma difficilmente sarà pronto per l’estate e dovremo mettere in campo anche altre risorse – tecnologiche e organizzative - che ne anticipino l’arrivo”.

Aumenteranno le tasse?

“Non è nel pensiero di nessuno. E’ chiaro che finanzieremo l’emergenza a debito e non con l’imposizione fiscale che colpirebbe un reddito che non c’è. Sicuramente avremo bisogno di una gestione europea del debito e di risorse più corpose per finanziare la situazione di emergenza e la ripresa della produzione. È molto in auge il ricorso al lessico militare e ci si chiede se l’uscita dell’emergenza sarà come un dopoguerra.  Come in quel caso sarà determinate contare su un contesto internazionale favorevole e questo contesto per noi è l’Europa”.

Cambierà la storia anche dell’uomo.

“Nessuno sa come questo periodo cambierà, oltre all’economia, la storia. Niente sarà come prima è vero. E come in tutte le crisi ci saranno vincitori e perdenti. Per questo non c’è un prima e non c’è un dopo, ma sappiamo che economia e salute devono viaggiare strettamente abbracciate come le due catene dell’elica che formano il DNA”.

Il passato insegna?

“Nel ‘600 una pestilenza ci ha fatto entrare in una nuova era. Rintanato in campagne, a sfuggire il morbo, il pensiero ha prodotto nuove visioni, Newton scopre gravità e acquista una inimmaginabile credibilità istituzionale portando il pensiero scientifico al centro dell’attenzione. Ma insieme al pensiero degli uomini, dei singoli uomini, c’è un problema di infrastrutture organizzative che devono accompagnare il pensiero e trasformarlo in cambiamento; cambiamento delle visioni, dei comportamenti, dei consumi”.

Per concludere, da vicino cosa ha osservato?

“Nelle ore del dilagare della pandemia si è dimostrato che – almeno nelle grandi regioni del nord - l’infrastruttura sanitaria del paese ha tenuto. Da noi in Emilia Romagna in particolare, se mi è concesso di dire. Oltre che ai medici eroi e al personale sanitario tutto, dovremo portare riconoscenza anche alle strutture organizzative della sanità, dagli stati maggiori alle furerie, alla loro capacità di sapersi ripensare e riorganizzare tempestivamente”. (G.A.)